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ambulatorioIlario e Valeria sono come lo yin e lo yang: lui concreto, diretto e direttivo, lei materna e comprensiva. Lui col pallino dell’ordine e attento a tenere le giuste distanze dagli altri, lei che fa della relazione di cura il suo punto di forza. Quello che li accomuna è il loro impegno come volontari all’ambulatorio solidale e  la passione con la quale affrontano il compito.

Lui è stato tra i fondatori dell’ambulatorio, dodici anni fa, quando – tra non pochi dubbi e timori – ci si è posti il problema di offrire un’assistenza sanitaria a coloro che vivevano ai margini della città: principalmente cittadini extracomunitari senza permesso di soggiorno o persone senza fissa dimora. Non siamo in un grande centro urbano, ma già da allora, anche qui, non erano poche le persone che avevano bisogno di una tutela al di fuori del sistema sanitario nazionale. I quattro volontari dell’ambulatorio, insieme ai sette medici che prestano gratuitamente la loro opera, in questi anni hanno potuto osservare da vicino la stratificata morfologia della marginalità: prima la comunità bulgara locale, che viveva in baracche accanto alla ferrovia, poi le famiglie rom dei campi abusivi, via via gli albanesi, i nordafricani, i rumeni, fino alle badanti ucraine e moldave. Ma anche le alterne fasi politiche in tema d’immigrazione: in primis gli svuotamenti del servizio creati dalle periodiche sanatorie o il fuggi-fuggi causato dalla recrudescenza della Bossi-Fini, quando ogni “schedatura” – inevitabile in un ambulatorio – creava il panico di essere individuati e puniti in quanto clandestini. L’ambulatorio ha attraversato tutte queste fasi navigando a pelo d’acqua: poca pubblicità, sano understatement e una “clientela” formatasi nel tempo solo grazie al passaparola.

Oggi sono poco più di 400 le persone che ogni anno si rivolgono all’ambulatorio, aperto due sere la settimana. Pazienti che possono trovare qui un servizio medico di base in grado di prestare le prime cure generiche e d’inviare a centri specializzati per ulteriori accertamenti o interventi; attraverso un intelligente lavoro di rete, i farmaci possono essere forniti gratuitamente grazie a un fondo di solidarietà messo a disposizione della locale farmacia.
Un servizio light, si potrebbe dire; come apparentemente facile e ordinario è il lavoro che nelle due serate svolgono i volontari: apertura, accoglienza delle persone, messa a disposizione dei medici della cartella sanitaria dell’utente già conosciuto o compilazione della nuova scheda per le persone che si affacciano per la prima volta, regolazione dell’accesso allo studio medico. Tutto qua.

Ilario e Valeria lo raccontano con grande semplicità, senza tralasciare gli aspetti critici che pure emergono: quelli che si imbucano senza averne diritto, i limiti strutturali dell’ambulatorio che non permettono una presa in carico più continuativa delle persone.

Mi viene allora la voglia di chiedere loro perché abbiano deciso di impegnarsi proprio qui e perché continuino a farlo; le risposte sono in linea con la loro dinamica da yin/yang: “sono stato tirato dentro”, risponde lui, “è la mia goccia nell’oceano”, dice lei citando Madre Teresa.

Risposte semplici e piane dietro le quali però si può avvertire tutto il valore civico di quest’opera di volontariato che, da un lato, afferma nei fatti il diritto alla salute personale di tutti gli esseri umani – senza distinzione di razza, nazionalità e religione – e, dall’altra, contribuisce a fare prevenzione a tutela della salute pubblica, cioè anche della nostra.

Oliviero Motta