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Dietro le lenti gli occhi sono vivaci, puntuti. Emanuele ha un eloquio pronto, preciso, arricchito da citazioni letterarie e da battute sottili. Quando gli chiedi l’età, ad esempio, ti risponde che è meglio esprimerla in secoli: 0,57, tra poco 0,58. La sua vicenda umana, lunga appunto quasi sei decenni, ha però un tornante molto facile da individuare: il ricovero in ospedale del gennaio 2020, per una bruttissima polmonite. Mancavano pochi giorni all’esplodere ufficiale dell’emergenza Covid-19 ma non sembra sia stato il coronavirus a metterlo al tappeto; è più facile pensare alla stanza di fortuna in cui viveva da più di due anni, non proprio l’ambiente più salubre del mondo: tre metri per quattro, senza riscaldamento, un’umidità da palude. Eppure quell’alloggio di fortuna rimediato dal fratello, all’inizio era sembrato una prima promessa di rinascita, anch’esso una svolta, a suo modo; dal natio Veneto, infatti, Emanuele si era catapultato perché sentiva di non avere una prospettiva: il lavoro che ormai non c’era più da tempo, l’affitto da sostenere, una relazione ormai declinante. E allora via, aveva reciso i pochissimi legami che gli rimanevano e si era trasferito in quella stanza al limite dell’inagibilità, a Garbagnate Milanese.

D’altra parte, per i primi tempi – come si dice un po’ sempre – poteva andare. Solo che poi i mesi si sono inseguiti e quel parcheggio provvisorio si è fatto permanente: molte difficoltà ad annodare le relazioni in una nuova città sconosciuta, e il lavoro – qui come a Padova – che non carbura.

Emanuele però non sembra il tipo che alzi bandiera bianca facilmente: e infatti chiede aiuto al Servizio sociale del Comune che lo segnala all’Emporio della solidarietà Caritas della sua città: una mano per fare la spesa mensile, una boccata d’ossigeno per allentare le ristrettezze della disoccupazione prolungata.

Poi, improvvisa, la curva a gomito del ricovero in ospedale.

E’ proprio qui che lo vengono a trovare Benedetta e Giovanni, l’assistente sociale dell’Emporio e l’educatore del progetto “Farsi strada”. “Eh vedi, non era Covid, se no avrei contagiato tutti anche qua dentro”, mi fa, allargando lo sguardo agli scaffali dell’Emporio. Proprio da quell’incontro in corsia comincia a venire pensato e in seguito abbozzato un progetto di uscita dalle condizioni critiche in cui si trovava Emanuele. Benedetta e Giovanni avanzano le prime proposte di sostegno per cercare una casa più salubre e un’occupazione per trainarlo fuori dal sottovuoto in cui pare essersi ficcato.

Ma le polmoniti, si sa, quasi mai lavorano a favore delle risorse migliori delle persone. Tornato nel suo alloggio di fortuna, Emanuele viene inghiottito da quelle che chiama le sue “sabbie mobili interiori”: pile scariche, debolezza fisica e affaticamento mentale, inerzia, fortissimo dubbio di aver sbagliato strada all’ultimo bivio. Lo sradicamento e il disorientamento fanno il resto. E così le proposte che arrivano dagli operatori di Intrecci sembrano affondare con lui nelle sabbie mobili. Perché Emanuele non riesce proprio a muoversi; il suo passo è intorpidito, pesante. “Ma per fortuna ‘ste sabbie non mi avevano inghiottito del tutto”. Insomma, ci vuole solo del tempo: qualche appuntamento fissato e poi cancellato all’ultimo momento, ma poi finalmente scocca l’ora in cui ci si sente in grado di gettare il dado.

“Alea iacta est”.

Ad accogliere Emanuele c’è la Fondazione Casa di Marta, a Saronno, che proprio per lui si convenziona con l’Azienda speciale dei Comuni del bollatese. Quattro piani di ferro, vetro e cemento, zeppi di servizi ma soprattutto di persone ed energie positive. L’offerta per Emanuele è completa: alloggio transitorio e un tirocinio lavorativo. Al primo incontro i responsabili della struttura lo invitano con inconfondibile piglio lombardo a “non stare qui intorno a pirlare in giro”, perché – manco a dirlo -bisogna darsi da fare.

Ed è quello che Emanuele comincia a fare a partire da luglio. Custode della struttura a tempo pieno: accoglienza delle persone in entrata, smistamento delle informazioni, piccole manutenzioni, portineria. E tutti gli incarichi “fuori orario” di cui c’è tanto bisogno in questo condominio della solidarietà in cui va e viene, ogni giorno, tanta gente: c’è anche qui un Emporio della solidarietà, ma poi la Mensa solidale, un centro per donne in difficoltà, docce, biblioteca popolare, consultorio, servizio infermieristico, sportello di educazione finanziaria. In questo bailamme ordinato ma esigente, Emanuele si riaffaccia alla vita sociale; il tirocinio non lo occupa in una funzione inventata o costruita artificialmente, e lui, da subito, si percepisce nuovamente utile.

“Ma quello che davvero mi ha rigenerato è stato avere tante persone intorno. Casa di Marta e l’accompagnamento di Giovanni mi hanno rimesso in movimento gli ingranaggi e la voglia di mettermi in gioco con gli altri. A un certo punto, passati un paio di mesi, il mio mood interiore era la domanda “ma perché cavolo non sono venuto qui prima?!”

L’aiuto concreto che Casa di Marta offre a chi fa più fatica attraversa nel profondo anche Emanuele. “Prima di arrivare qui, intendo quando abitavo ancora in Veneto, naturalmente sapevo cosa volesse dire dare una mano agli altri, ma un po’ così, da lontano. Diciamo che ero credente ma non praticante. Qui invece sono diventato pienamente consapevole del valore dell’aiutarsi a vicenda. E lo stare qua, tra le persone solidali di Casa di Marta mi ha proprio ri-orientato dentro. Se il mio percorso professionale si è svolto tutto nel settore della grande distribuzione e del merchandising, oggi ho proprio voglia di muovermi in una nuova direzione. Sì, insomma, vorrei mettere a frutto questa esperienza; negli anni che mi separano dalla pensione – dallo 0,58 allo 0,67 – mi piacerebbe fare il custode sociale a tempo pieno. Se fino a tre anni fa lavoravo col packaging e con le scatole, oggi desidero davvero continuare a lavorare con e per le persone. Non si tratta di un adattamento, capisci? è proprio un’esigenza che è venuta fuori in questi mesi densi in cui ho potuto fare un’esperienza fondante”.

Emanuele sa bene che il percorso fatto fino a qui a Saronno non potrà continuare all’infinito. Come sottolinea anche Giovanni, si tratta di “un’esperienza non a tempo determinato, ma comunque da determinare”. In parole povere, entro l’anno si dovranno trovare ulteriori strade da percorrere, anche perché qualcun altro, in futuro, possa avere le sue stesse opportunità.

Chiedo a Emanuele come si immagina tra qualche mese, al di là della foschia che vela il futuro prossimo di ciascuno. “Una bella domanda. Se scosto un po’ la foschia mi vedo sereno, direi sistemato, per così dire. Desidero anche ritornare ad avere una relazione affettiva seria, qualcuno da amare. E mi piacerebbe aver lasciato indietro per sempre quella trascuratezza interiore che ho sperimentato nei mesi successivi al ricovero in ospedale. Come intraprendere un nuovo viaggio, però senza il biglietto di ritorno a quei mesi tremendi”.

Buon viaggio, Emanuele, uomo sfuggito alla palude.

Oliviero Motta

Info: g.caimi@coopintrecci.it

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