Skip to main content

Daib è un ragazzo slanciato, ascolta musica “trap”, ha i jeans strappati e la collana placcata alla “Fifty Cent”. Ha un sorriso genuino e i capelli ricciolissimi.

“Io sono Daib, sono nato in Somalia l’otto febbraio 2003 in una città che si chiama Aborey, a nord di Mogadiscio. Sono nato in campagna in una famiglia composta da mio padre, mia madre e mio fratello. Non sono andato a scuola perché nel mio Paese c’è la guerra e ci sono i gruppi terroristici di Al-Shabaab. Se tu gli piacevi fin da bambino ti prendevano con loro e ti insegnavano a fare la guerra, se ti rifiutavi, anche una volta diventato grande, loro ti uccidevano.

Ti prendono quando sei bambino, a tredici o quattordici anni. Ti vengono a prendere e ti portano via con loro. Proprio per questo motivo, anche mio padre scappò via dal villaggio, andò a vivere in un altro paese sempre in Somalia, ma molto lontano.

Mi ricordo un giorno, avrò avuto quattordici anni, ricordo che il gruppo di Al-Shabaab è venuto nel mio villaggio e mi ha rapito. Hanno rapito circa dieci persone se non ricordo male, mi sembravano dieci e ci hanno portato in un posto segreto. È arrivata poi la polizia e grazie a Dio ci hanno liberato. Mi hanno riportato a casa e finalmente ho potuto riabbracciare mia madre. Da quella città dopo poche settimane sono scappato, fino a raggiugere l’Etiopia.”

Questo è solo l’inizio della lunga e dolorosa storia di un ragazzo somalo ospitato a Pogliano Milanese nel progetto SAI (Servizio di Accoglienza e Integrazione) a titolarità Sercop e che ha voluto raccontarsi per il progetto “Raccolta di Racconti”. L’esito del progetto sarà un insieme di storie raccolte in una pubblicazione in uscita a giugno.

Daib è stato molto contento di parlare al microfono, è stato molto felice che il suo racconto venisse salvato e diffuso in qualche modo. Ora è in Campania, lavora in un’azienda edilizia ed ha trovato un brav’uomo che gli affitta casa, nonostante il colore della pelle nero notte e quei capelli ricciolissimi. Ogni tanto mi scrive ancora e mi chiede come sto. Gli rispondo “bene” e finisce lì. Una piccola cosa apparentemente da nulla, che però riesce a rallegrare le mie giornate: semplicemente perché il suo ricordo di me arriva forte e chiaro, fino a qui dal mezzogiorno d’Italia.

Ah, giusto… Ma come mai “pomata”?

“Quelli del campo in Libia mi hanno lasciato andare e io non ho mai capito perché; sennò sarei morto per certo, perché io quei soldi che chiedevano non li avrei mai trovati. Non lo so, davvero. Ma mi ricordo bene di quell’uomo che mi ha lasciato la sua pomata per curarmi le ferite infette sulla schiena. Io non l’ho mai dimenticato, davvero. Mi ha lasciato la sua pomata. Si chiamava Abdillahim.

Mi ha salvato la vita.”