Con la conversione in legge del decreto del novembre 2024, il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha introdotto una misura che entrerà in vigore a partire dall’anno scolastico 2025/2026: l’assegnazione di un docente specializzato in italiano L2 (italiano come seconda lingua) nelle classi con almeno il 20% di studenti stranieri appena arrivati in Italia (“che si iscrivono per la prima volta al sistema nazionale di istruzione”) o che comunque non raggiungono un livello A2 di conoscenza dell’Italiano.
L’obiettivo dichiarato è quello di favorire l’inclusione scolastica, migliorare l’apprendimento della lingua italiana e, conseguentemente, il successo formativo degli alunni con cittadinanza non italiana.
La misura ha sollevato interrogativi importanti: un punto critico della normativa è quello che vede soprattutto la presenza di alunni neo arrivati come una questione da affrontare, anche se in realtà il numero di alunni di recente immigrazione è in diminuzione e non si sta verificando un flusso continuo significativo.
Tra le altre cose, l’introduzione di un docente di italiano L2 nelle classi in cui la percentuale di studenti appena arrivati o con competenze linguistiche inferiori al livello A2 supera il 20% risulta di complessa attuazione in molte scuole secondarie di secondo grado, perché, soprattutto nelle scuole superiori, la distribuzione degli studenti stranieri è molto variabile tra istituti e territori. In molte classi, anche se presenti studenti con difficoltà linguistiche, non si raggiunge la soglia del 20%. Inoltre, le esigenze linguistiche degli studenti possono non corrispondere alla classificazione per livello QCER, richiedendo interventi più flessibili e personalizzati.
Nell’anno scolastico 2022/2023, gli alunni con cittadinanza non italiana nelle scuole italiane erano 914.860, pari all’11,2% del totale degli studenti, con un incremento di 42.500 unità (+4,9%) rispetto all’anno precedente . Tuttavia, è importante notare che una parte significativa di questi studenti è nata in Italia: secondo il rapporto del Ministero dell’Istruzione e del Merito per l’anno scolastico 2022/2023, il 40,3% degli studenti con cittadinanza non italiana è nato in Italia.
Questo indica che buona parte degli alunni stranieri non è costituita da neo arrivati, ma da studenti che hanno già una certa familiarità con il contesto linguistico e culturale italiano. Altri ancora sono qui da qualche anno, non possono essere considerati neo arrivati, hanno un livello di italiano che gli consente di comunicare in italiano, ma non padroneggiano la lingua per lo studio.
Un tema centrale è quello dell’accesso alla cittadinanza: il mancato riconoscimento giuridico per molti studenti nati e cresciuti in Italia contribuisce a rafforzare la percezione di estraneità e di “non appartenenza”. Eppure, sono proprio questi bambini e ragazzi a rappresentare la linfa vitale per il futuro del sistema scolastico italiano, in un contesto segnato dal calo demografico e dalla chiusura di molti istituti per mancanza di iscritti.
Questi ragazzi, pur essendo di fatto italiani per lingua, cultura e percorso scolastico, continuano a essere considerati “stranieri” a causa del mancato riconoscimento giuridico della cittadinanza. Questa ambiguità alimenta una narrazione emergenziale che rischia di oscurare la realtà: la diversità linguistica e culturale delle nostre classi non è un ostacolo da gestire, ma una risorsa su cui investire.
Un altro elemento critico riguarda il modello culturale che sta alla base della misura ministeriale. La scuola italiana tende ancora a ragionare in termini di “normalità” e “eccezione”: l’alunno “medio” – implicitamente italiano, italofono, senza bisogni educativi particolari – viene preso come parametro, e tutte le altre situazioni diventano deviazioni da normalizzare con interventi specifici. Ma questa concezione è ormai superata: la realtà delle classi italiane è plurale per definizione, fatta di storie, lingue, competenze e ritmi di apprendimento diversi. L’inclusione non può essere un’operazione di aggiustamento, ma deve essere il cuore del progetto educativo e dovrebbe prendere come target di riferimento a cui rivolgersi non solo gli studenti, ma soprattutto tutti i docenti.
La soluzione proposta da molti pedagogisti è quella di investire nella formazione continua di tutti gli insegnanti, rendendoli capaci di lavorare in contesti multiculturali e multilingua, cooperando, ma senza delegare unicamente il compito a figure esterne o aggiuntive. Inoltre, servono scelte organizzative che favoriscano la compresenza in classe, il lavoro cooperativo, la didattica personalizzata e flessibile, in grado di valorizzare ogni singolo studente.
Serve dunque un cambio di narrazione: non sono gli studenti stranieri a dover essere “integrati”, è il sistema scolastico che deve essere riformato per accogliere la realtà plurale del presente.
Il decreto del novembre 2024 rappresenta un primo passo solo se inserito in un progetto più ampio. Se davvero si vuole costruire una scuola inclusiva, è necessario andare oltre il linguaggio dell’emergenza e riconoscere la complessità delle nostre classi come un dato di fatto da cui partire per riconoscerne il valore. Solo così potremo trasformare la scuola in uno spazio dove non si impara solo l’italiano, ma anche a essere cittadini di una società giusta, plurale, che sappia riconoscere la sua eterogeneità e ne possa trarre frutto.
Francesca Piras