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Il nostro progetto, come da decreto ministeriale, ha chiuso il 30 giugno 2025, a quasi tre anni dal suo inizio. Ha accolto nel tempo 13 nuclei famigliari, per un totale di 41 ospiti e ad oggi tutte le famiglie hanno trovato una nuova collocazione: 9 persone sono tornate in Ucraina, 9 vivono in totale autonomia in Italia, 8 sono andate all’estero, 6 sono in carico a nuovi progetti di accoglienza e infine 9 persone sono in situazione di semi-autonomia, capaci di autosussistenza ma ancora in cerca di casa e quindi ancora ospiti in abitazione parrocchiale o comunale.

Definiamo questo progetto singolare per molteplici motivi che ci permettono di ragionare su cosa significhi oggi fare accoglienza. Innanzitutto si è occupato solo di cittadini ucraini, persone simili a noi sia per il loro stile di vita che per il colore della pelle, persone arrivate da noi allo scoppio di una guerra che ci aveva profondamente sconvolti. È stato facile, per la nostra società, trovare empatia, vedere le nostre paure riflesse nelle loro vite; prenderci cura di loro è stato anche un po’ prenderci cura di noi stessi, abbiamo saputo dare ciò che, al loro posto, avremmo voluto avere. Abbiamo espresso vicinanza emotiva, cura per le cose e per gli ambienti, ci siamo sentiti alla pari, abbiamo sentito il desiderio di colmare col bene l’ingiustizia e la crudeltà del male.

“Nella vita accade spesso che la semplice partecipazione umana diventi più preziosa della ricchezza materiale. Non è facile esprimere a parole il grado di gratitudine che una persona prova per una spalla tempestivamente sostituita, per un sostegno. La comprensione che non siamo soli con il problema, che ci sono persone pronte a condividere il fardello del momento, non ha prezzo”

(Il ringraziamento di una nostra ospite, Natale 2022)

La guerra in Ucraina non ci è parsa lontana e scontata, come spesso paiono lontane e scontate altre forme di sofferenza che spingono masse umane a partire dalle loro case; la solidarietà si è espressa naturalmente, in un corpo perfettamente funzionante, che ha visto singoli, organizzazioni, istituzione e politica, lavorare all’unisono per fare posto a questi ospiti ritenuti “i benvenuti”. È stato bello, possibile, efficace e non è mai così: spesso l’opinione pubblica condanna, lo Stato “difende” i confini e la solidarietà resta terreno di pochi, la bellezza dell’incontro e del “fare posto all’altro” resta un privilegio di chi sa mantenere accesa l’indignazione per il male e aperto il desiderio di condivisione, al di là della paura di incontrare il diverso.

È stato singolare perché è stato creato da chi si occupa di emergenze (Protezione Civile), e avrebbe dovuto avere la durata di solo 6 mesi: è nato dunque con regole diverse da quelle che normano i consueti progetti di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: ferree dal punto di vista economico-burocratico, ma deboli nell’orientamento all’autonomia e nei tempi di sviluppo. Questo ha dato a noi e agli ospiti parecchia e vantaggiosa libertà, ma ci ha portati spesso a ragionare su quale sia il limite fra aiuto co-costruttivo ed assistenzialismo. Questa libertà ci ha reso necessario un forte lavoro di relazione, di incontro, di ricerca condivisa della strada e delle motivazioni. Nel caso di rifugiati di altre nazionalità, la strada è spesso predeterminata – dai tempi lunghi della burocrazia, dall’impossibilità di tornare o di lasciare l’Italia per un altro stato estero – i percorsi di accoglienza sono dettati da norme rigide e massificanti, le persone vengono spostate con tempi spesso repentini, è difficile riuscire a costruire una strada aderente ai propri desideri.

È un progetto che, come tanti altri che praticano l’accoglienza diffusa, ha lavorato in stretta sinergia con i territori. All’inizio sono stati tanti i volontari e le istituzioni attive, presenti a vario titolo, alla fine siamo rimasti un po’ più soli, in parte perché le persone evolvono e hanno capacità e diritto di proseguire in autonomia, in parte perché alla relazione di aiuto si sostituiscono legami di amicizia.  In parte perché, venendo meno la carica emotiva dell’inizio, gli ucraini sono diventati immigrati come gli altri, è scemato il desiderio collettivo di vicinanza. È venuta meno la sinergia, fra ospiti, singoli, istituzioni e politica e così ci si trova di nuovo scollegati, ognuno a fare quel che può in un contesto in cui è difficile trovare l’opportunità di diventare fino in fondo nuovi cittadini.

La pace in Ucraina è un sogno ancora lontano, la vita lì è sempre più difficile: economia precaria, bombardamenti, divisione dell’opinione pubblica interna al Paese. Anche la vita in Italia inizia a far paura, perché è tempo di trovare casa per rendersi autonomi, ma il mercato della casa è bloccato, chiuso nelle sue regole e nelle sue paure (assistiamo all’assurdo di case chiuse e a rischio degrado e di gente senza casa, che sarebbe in grado di mantenerla e di prendersene cura). Sarebbe un sogno, rivedere, per gli stranieri, l’interesse e la compartecipazione di 3 anni fa, il desiderio di aprirsi e di condividere che c’è stato allora; sarebbe bello ci fosse ancora una forte indignazione per il male, l’amore per la libertà di vivere dove si vuole, un richiamo istintivo e liberatorio a quel valore ancestrale e luminosamente umano che è la solidarietà.

Vogliamo ringraziare tutti i territori coinvolti in questi tre anni di progetto: Gavirate, Comerio, Barasso, Busto Arsizio e Montonate, grazie a tutte le persone che hanno avuto a cuore questo pezzo di storia. Lo facciamo riportando le parole che ci ha lasciato una nostra ospite appena uscita, e che crediamo sappiano mettere a fuoco quanto di meglio, insieme, abbiamo saputo esprimere.

“Vi preghiamo di accettare le nostre più sincere parole di gratitudine e affetto. Il vostro sostegno non è solo aiuto concreto: è speranza, è fiducia ritrovata nell’umanità, è una mano tesa proprio quando tutto il resto del mondo sembra voltarsi dall’altra parte. Grazie al vostro instancabile impegno, la gentilezza si fa concreta e visibile. Siete parte di quel mondo grande e luminoso che può essere definito con una sola parola: “Bene”. Portate pace là dove da troppo tempo manca. Restituite alle persone il diritto di sognare, sorridere e credere in un domani migliore. Che la vostra energia e dedizione vi ritornino moltiplicate. Che ogni giorno vi doni nuova ispirazione, e che ogni sguardo riconoscente vi ricordi che state davvero compiendo un miracolo” Grazie di cuore da operatori e ospiti del “Progetto Accoglienza Ucraini Varese”