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L’Istituto europeo di psicotraumatologia e stress management cura da anni la supervisione delle nostre equipe Siproimi, nei centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo. In questa intervista ragioniamo attorno a questo fondamentale strumento di supporto per tutti gli operatori impegnati nel sostegno delle persone accolte.

La supervisione alle equipe psicosociali è una metodologia nata negli anni ’70: possiamo considerarla ancora attuale o sta ‘passando di moda’?

La supervisione alle equipe nasce in un momento storico particolare della psicologia, è un momento in cui la psicologia esce dagli ospedali e comincia ad occuparsi del sociale, di quegli ambiti extra sanitari che fino a quel momento non erano mai stati toccati dall’interesse psicologico; è anche un momento accompagnato da aspetti storici e ideologici che vogliono portare una maggiore attenzione a tutti quei processi di carattere educativo e sociale di integrazione. Negli anni 70 le supervisioni erano improntate a un modello ti tipo psicodinamico, anche perché era l’approccio che più andava di moda in psicologia. Il lavoro somigliava molto ad un incontro di gruppo; l’occasione era dettata dal caso clinico o sociale o educativo, ma di fatto si lavorava sulle dinamiche del gruppo. Questo ha portato risvolti positivi; ad esempio nel personale socio educativo si è alimentata maggiore consapevolezza, si sono approfonditi professionalità e strumenti, si è sviluppata una capacità di pensiero critico. D’altro canto ha portato anche a tanta psicologizzazione della supervisione, che poco si differenziava in fin dei conti dalla terapia di gruppo.
Dagli anni 90 in poi tutta questa accentuazione della psicodinamica è andata scemando e hanno preso il campo altre correnti, sappiamo infatti che anche le scienze tendono a seguire le mode. Fu così che il tipo di approccio psicodinamico risultò del tutto superato. Esso aveva in effetti dei limiti: obbligava gli operatori che stavano facendo il loro lavoro a mettersi a nudo e ad affrontare dei momenti di psicodinamica gruppale che non avevano richiesto. L’approccio, in modo quasi del tutto opposto, passò così a considerare la supervisione come strumento che lavora solo sul caso, un approccio, al contrario del precedente, molto tecnico e riduzionistico.
Per sua natura la supervisione, nel suo senso costitutivo dovrebbe mettere sempre il focus sulla relazione, per non cadere nella polarizzazione dei due estremi: la supervisione-terapia e la supervisione-briefing tecnico. Ritengo che bisognerebbe riuscire a concentrare invece il lavoro di supervisione su quella relazione costituiva e fondante il lavoro educativo che è la relazione tra l’operatore e l’utente; il focus, insomma, è sulla relazione operatore-beneficiario, non solo sull’operatore e nemmeno solo sull’utente.

Quali aspettative ci sono nei confronti della supervisione? Quali realistiche e quali immaginarie?

Le aspettative legate alla supervisione sono una grossa trappola in cui anche i supervisori più esperti possono cadere. Quando l’operatore lavora in una equipe a contatto con l’utenza, che è per sua natura portatrice di bisogni e criticità, incontra una serie di difficoltà, fallimenti e cose che non funzionano. Il rischio è quello di aspettarsi che il supervisore possa risolvere tutti i problemi e dare tutte le risposte. C’è spesso in ciò un investimento un po’ magico ed onnipotente sul supervisore, a cui fa inevitabilmente seguito l’esperienza di delusione che spesso porta a non riconoscere più l’utilità della supervisione. Per evitare di vedere nel supervisore qualcuno che può risolvere magicamente i problemi, è fondamentale chiarire sin dall’inizio quali sono le aspettative giuste, legittime e realistiche rispetto alle quali il supervisore dovrà rendere conto, ma è altrettanto importante esplicitare ciò che non è realistico attendersi dalla supervisione. Facendo ciò costruiamo un rapporto etico e onesto e evitiamo gli investimenti prima onnipotenti ed in seguito deludenti. Quello che spesso viene chiesto è il “mi dica cosa devo fare quando l’utente fa…”. Questa è una delle trappole in cui il supervisore non deve mai cadere. La supervisione deve aumentare o costruire competenze e non indicare comportamenti. La differenza è fondamentale ed è il cuore del lavoro di supervisione. Il supervisore lavora con degli operatori che hanno delle capacità (e bisogna fare molta attenzione a non confondere capacità con competenza) e costruisce con gli operatori le competenze necessarie ad affrontare questa o quella situazione. Lo sviluppo delle competenze è il patrimonio più grande che la supervisione può lasciare all’equipe. Nel momento in cui questo o quell’ospite si comporta in un determinato modo l’operatore non può avere comportamenti preconfezionati, perché il comportamento è situazionale, ma deve essere in grado di andare nella sua “cassetta degli attrezzi delle competenze” e saper scegliere quale mettere in campo. Attraverso il lavoro di supervisione l’operatore potrà imparare a leggere meglio la situazione e a collegare quella situazione, quella domanda, quel bisogno ad una specifica competenza, al fine di individuare il comportamento necessario.
La supervisione dovrebbe essere una palestra dove allenarsi, non una sfera di cristallo dove prevedere i fatti.

La supervisione può essere un momento pericoloso per la solidità di una equipe? Se sì, perché e con quali conseguenze?

La mia risposta è sì, la supervisione può anche essere pericolosa.
La supervisione è una medicina straordinaria ed utilissima che aiuta a migliorare situazioni che hanno bisogno di essere maggiormente sviluppate e sostenute, ma così come una medicina è un ottimo rimedio per alcuni problemi o pessimo per altri, la stessa cosa vale per la supervisione nelle equipe.
La supervisione a volte viene utilizzata quando ci sono problemi di carattere organizzativo, amministrativo, aziendale che dovrebbero essere risolti al livello di risorse umane, mentre, erroneamente, si pensa che dare una buona supervisione possa risolvere tali problemi.
Quando diamo la supervisione ad una equipe che ha problemi organizzativi strutturali, questa per un po’ può essere una buona panacea, ma poi quando gli operatori vedono che niente cambia a livello strutturale e organizzativo, la supervisione viene vissuta in maniera quasi persecutoria, un vero e proprio un tradimento del patto fondamentale che deve sempre sussistere tra operatore e azienda.
Se la situazione di partenza è compromessa il gruppo non potrà lavorare bene in equipe, perché non c’è fiducia, sicurezza, trasparenza.
Un’equipe deve essere sufficientemente sana e strutturata per trarre efficacia dalla supervisione e migliorare la sua efficacia. Se non si valuta attentamente ciò, la supervisione può diventare il momento in cui i conflitti esplodono.

Quali sono gli effetti a breve e a lungo termine del lavoro di supervisione?

Gli effetti a breve termine del lavoro di supervisione li vediamo nel rafforzamento della fiducia degli operatori e nel saper rispondere positivamente alle situazioni concrete. La presenza periodica della supervisione diventa un luogo sicuro dove tornare a rivedere e ri-analizzare ciò che non ha funzionato e poter imparare a migliorare e sviluppare le proprie azioni professionali. Questo è il primo effetto a breve termine della supervisione: inserire un metapensiero che funziona come accompagnamento costante all’agire. A più lungo termine la supervisione migliora il clima di lavoro, crea benessere lavorativo e fa da grande calmieratore dello stress. Spesso non evidenziamo abbastanza quanto la supervisione sia un grande protettore dello stress collegato al lavoro, proprio perché aiuta a dare il giusto significato alle situazioni, a razionalizzare e metabolizzare le emozioni, a non leggere le cose in maniera troppo personalistica, ma a vederle in una chiave professionale, di apprendimento e miglioramento.
Attraverso i momenti di supervisione l’operatore riesce a non “farsi andare il lavoro sottopelle”, impara ad avere la giusta distanza, lavorando in maniera più efficace ed efficiente.

Quali caratteristiche speciali/distintive deve avere la supervisione offerta alle equipe che operano nei centri SIPROIMI?

Per le equipe del SIPROIMI la supervisione è, a mio parere, fondamentale. È molta la fatica psichica di chi deve lavorare a contatto con tante situazioni che mettono continuamente alla prova la relazione educativa.
La caratteristica della supervisione dentro a questo tipo di progetto deve essere la transculturalità.
La relazione fra operatore e utente, che di solito è una relazione a due, viene amplificata dal fatto che l’operatore deve includere nella relazione la transculturazione, che non significa fare attenzione solo al confronto con la cultura di provenienza dell’utente, ma porre l’attenzione alla relazione tra questa cultura di appartenenza e la cultura della regione di accoglienza. Due culture diverse che impattano una sull’altra in modi che non conosciamo e che necessariamente l’operatore deve cercare di leggere.
Con le persone straniere l’operatore deve sempre tenere in mente la relazione tra sé, l’utente con le sue individualità specifiche e l’incontro delle due o più culture.
Nel SIPROIMI questo è il lavoro che viene fatto in ogni gesto concreto: quante docce al giorno si devono consentire? Che menu programmare? Cosa significa tenere in ordine un locale? La supervisione transculturale aiuta ad avere in mente il terzo vertice del triangolo, ossia che cosa sta succedendo tra le due culture che si incontrano e si affrontano in quel particolare gesto.
La supervisione è anche utile per non cadere in nessuno di due estremi in cui ho spesso visto cadere gli interventi dedicati agli stranieri nel nostro Paese: da una parte il tema culturale, quando non è preso in considerazione, rischia di creare immense difficoltà nel capire o leggere le situazioni, ma dall’altra parte il rischio è che ci sia un eccesso di attenzione nei confronti della cultura e quindi si sia portati a perdere di vista l’individualità del singolo e si faccia così diventare la cultura la causa stereotipata di tutto. Bisogna fare molta attenzione alla lettura culturale troppo enfatizzata che proviene dai primi fautori dell’etnopsichiatria, perché se sparisce l’individualità specifica del singolo si arriva ad etichettare gli atteggiamenti per appartenenza culturale .
Il triangolo Operatore-Ospite-Cultura è lo spazio dentro cui la supervisione può aiutare le equipe a dare il giusto peso e la corretta interpretazione di senso a ciò che accade nel quotidiano dell’accoglienza.

A cura di Federica Di Donato
Info: m.minessi@coopintrecci.it