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Nelle case non c’è niente di buono/Appena una porta si chiude dietro a un uomo/Succede qualcosa di strano, non c’è niente da fare/è fatale, quell’uomo comincia ad ammuffire./Basta una chiave che chiuda la porta d’ingresso/Che non sei già più come prima/E ti senti depresso./La chiave tremenda, appena si gira la chiave/Siamo dentro a una stanza:/Si mangia, si dorme, si beve.

Perché il giudizio universale/Non passa per le case/Le case dove noi ci nascondiamo/Bisogna ritornare nella strada/Nella strada per conoscere chi siamo.”

Guarda tu le coincidenze. Ivan è venuto al mondo proprio nell’anno in cui Giorgio Gaber incideva questa canzone. Erano gli anni settanta, bellezza. Eppure anche allora saranno esistite persone che si ritrovavano in strada senza nulla, prive di una casa e derubati di un futuro. Chissà se Gaber c’ha mai pensato, a come possano mai suonare questi versi, se uditi da alcuni angoli marginali dell’esistenza umana.

E chissà se Ivan l’ha mai ascoltata, la canzone di Gaber, e cosa potrebbe mai pensarne ora, qui.

Qui è “Casa Itaca”, un servizio cucito apposta per le persone senza una dimora. Un letto in camere doppie, la doccia, ambienti caldi e stimoli per non arrendersi alle sciagure incontrate lungo il percorso.

Ivan è ospitato qui da qualche mese, dopo essere precipitato nella classifica della vita, oltre la zona retrocessione. Lo incontro, insieme ad Angelo, educatore del progetto “Farsi strada”, nell’ufficio della struttura che fa anche da saletta colloqui. Si presenta con la divisa da guardia giurata, o giù di lì, che è un po’ il suo marchio di fabbrica. “Questa qui? Mica è vera, eh. Guarda…” mi fa togliendosi dalla manica i classici distintivi da operatore della sicurezza: “vengono via come niente”.

Ivan è stato per anni un operatore della sicurezza, dipendente da agenzie per la sicurezza. Ma la vita non gli ha risparmiato il suo feroce sarcasmo, privandolo a uno a uno dei suoi punti di riferimento, quelli che giocano un ruolo fondamentale, appunto, nella sicurezza di una persona.

A sentirlo raccontare, emozionato e a tratti commosso, ho l’impressione di avere davanti a me Giobbe in persona. Come nella vicenda del mitico personaggio biblico, a Ivan succede di tutto: il Covid lo priva del lavoro – faceva allora il buttafuori nelle discoteche e nei grandi eventi – il mutuo arrancante si mangia la casa che va all’asta, la moglie ha già scelto un altro compagno e comincia a riversare su Ivan il suo rancore. I suoi migliori affetti o lo tradiscono o lo guardano indifferenti, mentre inciampa all’indietro, come da una scala mobile imboccata al contrario.

Le lacrime spuntano ai margini degli occhi sopra la mascherina, la voce si rompe; per nulla facile, oggi, riavvolgere il nastro.

Perché a un certo punto Ivan si trova col sedere letteralmente sull’asfalto, ma per lui non valgono le parole di Gaber che invitava a “ritornare nella strada per conoscere chi siamo”.

Qui è esattamente il contrario. Quando hai solo il lastrico e devi rinunciare a tutto quello che eri stato fino a qualche settimana prima, è durissima.

Dove hai vissuto, Ivan? “Quando mi sono trovato con due sacchetti della spazzatura pieni dei mei vestiti e nient’altro, mi sono rifugiato in un container abbandonato dell’ex acquedotto. Sono stato lì un mese. La giornata la passavo in realtà al bar dei miei amici cinesi, una giovane coppia che mi ha lasciato ricaricare il telefono e mi ha messo a disposizione ogni giorno un pasto caldo e un bagno da utilizzare. L’altro pasto lo rimediavo alla Mensa Caritas. Insomma, il bar era la mia base e per il resto giravo tra conoscenti e servizi per rimediare qualche altro aiuto”.

Com’è chiedere aiuto? “A un certo punto perdi la fiducia e credi che ce l’abbiano tutti con te. Hai speranza, certo, ma poi comincia a crescere soprattutto la paura. Quello che ti frena sono anche le immagini che ti sei fatto della Caritas, dei dormitori e dei servizi del genere. Pensi che siano solo dei posti infernali, in cui al massimo puoi rimediare un loculo, ma nessun aiuto vero. C’è una voce che continua a dirti che niente può servire a qualcosa”.

E’ probabilmente seguendo questa voce che Ivan prova a farla finita sul serio, togliendosi la vita.

Ma non ce la fa.

Finisce “solo” in un reparto psichiatrico, in Trattamento sanitario obbligatorio.

Qualche settimana dopo, in ottobre, un amico lo convince ad andare a chiedere una mano agli assistenti sociali di Paderno, la sua città; e qui si innesta la catena di solidarietà che porta Ivan al Centro d’ascolto “Il Veliero”, animato dai volontari Caritas; i quali, a loro volta, hanno da poco stretto una collaborazione col progetto “Farsi strada”, promosso da Comuni Insieme e da Intrecci.

Angelo si ricorda quel primo incontro: “Ivan stava lì, guardando fisso per terra; per tutto il tempo in cui abbiamo parlato avrà alzato lo sguardo sì e no due volte. Non gli riusciva proprio di guardarci negli occhi. Era come un uomo sconfitto, finito. Privo di qualsiasi stimolo, desiderio, voglia. Eppure poi, a stretto giro, è iniziato il “nostro gioco del lego”; mattoncino dopo mattoncino, Ivan ha cominciato a mettere insieme i pezzi e ad accettare di farsi aiutare: prima l’approdo a “Casa Itaca”, a Rho, poi la Bacheca lavoro della Caritas cittadina che trova una nuova postazione lavorativa per lui”.

Il nuovo lavoro, addetto alla sicurezza in una famosa catena di supermercati, è fresco fresco. Com’è Ivan? “Dai, tornare a lavorare è bello. Insomma, non è per niente facile stare nel supermercato e fare la guardia al distanziamento tra le persone. Però sono le prime settimane in cui comincio a respirare un po’, sono tornato a vivere, è un punto di partenza”.

Intanto, a Casa Itaca e alla mensa Caritas di Rho Ivan si è dato da fare, per esempio consegnando il cibo al domicilio di una signora che non riesce più ad uscire di casa.

E ora, all’orizzonte, si staglia già il prossimo piccolo grande mattone.

A breve, infatti, Ivan sarà proposto come ospite dell’appartamento che Comuni Insieme ha messo a disposizione del progetto “Farsi strada”. Un piccolo co-housing per quattro persone che ricominceranno – secondo l’approccio dell’housing first– ad avere una loro casa.

Una casa vera.

Sarà per Ivan uno dei tanti nuovi inizi di questi lunghi mesi.

E allora anche il buon Gaber, forse, ci avrà azzeccato: “Basta una chiave che chiuda la porta d’ingresso/Che non sei già più come prima”.

Oliviero Motta
Info: g.caimi@coopintrecci.it