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Non a tutti capita, per fortuna. Ma sentiamo che certe vicende ci coinvolgono comunque: quando ci vengono raccontate, infatti, non raramente avvertiamo una vibrazione laggiù, nel profondo di noi stessi. Come un’eco tra pareti strette e ripide. Non una cosa piacevole, questo no. Ma intimamente anche nostra.

In questi percorsi in cui la salute mentale si deteriora c’è spesso un punto di rottura, singolare e individuato, oltre il quale quasi niente è più come prima. Viene in mente Baricco e il suo Novecento, che all’improvviso annuncia che da lì a poco sarebbe sceso dalla nave sulla quale ha vissuto fin dalla nascita: “A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile attorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. (…) Non si capisce. E’ una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli, un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui.”

Giacomo, per esempio, conduceva una vita regolare e piena, da giovane ingegnere in carriera. Un lavoro impegnativo che talvolta lo portava anche in giro per il mondo, una prospettiva di agiatezza e relativa sicurezza. “Pensavo di poter fare cose grandi, stavo sulla cresta dell’onda”, ci dice come se parlasse di un mondo ormai chiuso dietro le sue spalle.

Giacomo sta al passo di carica per cinque anni, poi sceglie di lasciare la sua prima società perché sente che lo stress lo ha spremuto troppo e ha bisogno di cambiare, probabilmente di rallentare. D’altra parte per un ingegnere non è difficile trovare nuove opportunità, “chiusa una porta si apre un portone”. E invece. Fran. Senza particolari scricchiolii, senza una ragione. Primo giorno del nuovo lavoro, si presenta un mal di testa improvviso, devastante; scappa a casa e pare una soluzione. Ma il giorno dopo non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto. Fran. E nelle settimane successive sta ancora più male, fino ad avvertire voci insistenti e malevole nella propria testa.

E’ una discesa ripida e veloce, complicata da sintomi invadenti e dirompenti. La vita va a rotoli, fino a commettere passi falsi e varie sciocchezze. E nel 2018 finisce che lo arrestano con un’accusa non proprio lieve e finisce in carcere.

Guarda, penso che la cosa peggiore che possa accadere a una persona che soffre già di qualche disturbo mentale sia essere rinchiuso in un carcere. In galera si finisce per impazzire normalmente, pensa che pena può diventare per chi non sta già bene. Ti dico solo che quella voce all’altoparlante che chiama ora uno ora l’altro dei detenuti, incessantemente dalle otto alle venti, ti entra nella testa e non te la togli più, giorno e notte. E ti ho citato solo un dettaglio di quella vita allucinante”.

E così Giacomo si trova a doversi destreggiare in una situazione pesante di suo, a cui non riesce a fare fronte. La terapia che aveva avviato prima di ritrovarsi ristretto perde colpi, ma il servizio sanitario interno al carcere si limita a somministrarla regolarmente.

Un anno e mezzo di carcere diventa un macigno sotto cui si può soccombere. “Mi sembrava di essere caduto in una fossa, senza scampo. Finivo al pronto soccorso ogni dieci giorni, ma nulla cambiava. In quel tempo disturbato, ogni giorno dovevo elemosinare la mia serenità”.

Tuttavia, Giacomo decide che è tempo di mettere in gioco le energie e la lucidità residua per scavarsi un percorso alternativo, che metta al centro la cura di sé. Ingaggia uno psichiatra privato che lo visita una decina di volte in carcere; lo specialista arriva a conclusioni che convincono il magistrato di sorveglianza a disporre la detenzione domiciliare presso una struttura attrezzata e accreditata per la cura di persone con problemi di salute mentale.

E’ a questo punto che il sentiero di Giacomo si incrocia con la nostra comunità ad alta protezione “Alda Merini”, ad Appiano Gentile. “Chi non conosce queste vicende da vicino, non ha idea di che salto stiamo parlando qui. E’ come aver superato un ostacolo altissimo. Respiro di nuovo. Entro in comunità e trovo un percorso adatto per il proseguo del mio itinerario di cura: trattamento farmacologico personalizzato e adattato costantemente, un contesto ambientale finalmente umano e servizi per la riabilitazione. In comunità trovi un giardino verde in cui ritrovarti – per citare la cosa se vogliamo più banale – e persone disponibili, interessate davvero a te.

Ho trascorso otto mesi in comunità: un tempo di pausa e di cura di sé che mi ha permesso di raggiungere un piccolo grande obiettivo, rilassando tutte le tensioni che ospitavo dentro di me. Sono stati otto mesi che ho affrontato secondo tre parole chiave che ho fatte mie e praticato il più possibile: regole + lavoro + atteggiamento positivo. Ho cercato di “sfruttare” tutte le attività organizzate in comunità e di metterci da parte mia lo spirito di iniziativa che mi veniva dall’aver riacquistato serenità e tranquillità. E’ stato un percorso davvero grande di crescita. Insomma all’”Alda Merini” mi avete dato una rifrullata, una risistemata generale di cui avevo un disperato bisogno. Per capirci, quando sono arrivato ad Appiano Gentile ero completamente apatico, non avevo più emozioni mie. Questo è stato uno degli argomenti principali dei colloqui con gli psichiatri e gli psicologi della comunità; è stato un percorso costante di recupero di questa dimensione. Le emozioni, le mie emozioni, sono tornate”.

Dopo otto mesi Giacomo ha cominciato una nuova fase della sua vita. Il magistrato di sorveglianza, infatti, ha disposto la possibilità di scontare quello che gli mancava della pena a casa propria, dalla quale parla con noi, attraverso una piattaforma digitale. “Dai, a casa è sempre bello tornare. Io naturalmente rimango in cura ai servizi territoriali per la salute mentale e in carico all’Uepe, ma il cambiamento rispetto alla comunità è notevole perché qui mi trovo inevitabilmente isolato. Sì, insomma, non parlo con quasi nessuno e ho davvero pochissime occasioni di aiutare qualcun altro che non sia me stesso. Da qualche giorno ho iniziato ad insegnare a suonare il pianoforte a mio fratello minore e questo alimenta il mio lato più positivo”.

Giacomo parla della sua vita attuale come di un’ulteriore fase di recupero della serenità, un tempo per sé stessi, “dignitoso, sereno e salutare”. La mattina, due ore al giorno, può uscire di casa e allora si dedica a grandi camminate per la sua città. “Ho sempre cercato di camminare tanto, persino in carcere, lungo i corridoi del braccio. Ma ora, ovviamente, è molto diverso”.

Alla fine della nostra conversazione gli chiediamo del futuro, di come lo riesca a vedere. Anche dallo schermo del pc trapela la sua commozione. Si può comprendere che guardare avanti non sia facile per lui: “Sì, sono qui sereno, quasi alla fine del percorso di detenzione, perché ho davanti ancora sei mesi. Cerco di vivere questo tempo secondo per secondo, senza pormi troppi traguardi. Perché ancora oggi il mio problema è riuscire ad alzarmi la mattina e andare incontro al mio giorno. Il mio obiettivo, oggi, è riuscire davvero a utilizzare pienamente quelle due ore di libertà, alzarmi dal letto e uscire di casa dalle 10 alle 12. Ci riesco il 60% delle volte, ma c’è ancora un 40% nel quale non mi riesce. Devo per forza di cose andare per gradi. Per il resto ognuno ha la sua croce, giusto? O, per meglio dire, ha il suo destino. E io cercherò di seguire il mio”.

A cura di Oliviero Motta e Elia Casella

Info: cpamerini@coopintrecci.it