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“Perché faccio questo lavoro?”. Quella giornata di fine agosto si è aperta con questo interrogativo: stavo facendo un lavoro al pc, ho guardato la coordinatrice del centro dove lavoro e le ho chiesto di darmi qualche motivazione per cui avevamo deciso di intraprendere questo pazzo lavoro.

Nessun motivo mi convinceva, era proprio una di quelle giornate in cui mi sentivo persa e mi chiedevo se ne valesse ancora la pena.

A fine giornata lavorativa però qualcosa di imprevisto è successo. Uno degli ospiti del mio centro mi chiede di parlare, ed è già abbastanza strano, perché è una persona timida e riservata. Accolgo con piacere questa richiesta e lo invito a venire in ufficio, dove c’è anche la coordinatrice. Nonostante il buon italiano, Richard[i] preferisce parlare nella sua lingua madre, perché si capisce che ha proprio bisogno di esprimersi bene per raccontarci qualcosa che lo tocca nel profondo.

Ha vissuto un’infanzia difficile, in cui neanche casa era un luogo sicuro. Ha passato molto tempo per strada, prima nel suo Paese di origine e poi in Libia. Ha sempre dovuto contare solo sulle sue forze, era SOLO, non poteva fidarsi di nessuno, non riusciva proprio a fidarsi di qualcuno. Non si sentiva mai al sicuro, aveva sempre con sé un coltello o una pistola per difendersi, perché vivere per strada era pericoloso. Sono stati anni difficili, in cui a volte ha pensato davvero che non ne valesse più la pena, che non ci fossero validi motivi per continuare a vivere e spesso nella sua mente pensava che forse sarebbe stato meglio farla finita.

Questo pensiero è ritornato frequentemente anche dopo essere arrivato in Italia. Durante il suo percorso nell’accoglienza, ha sempre preferito rimanere in disparte e non dar confidenza a nessuno. Poi qualcosa è cambiato, “quel pensiero” ha iniziato ad allontanarsi; grazie anche al supporto della psicologa, e non solo, ha capito che poteva fidarsi di qualcuno, che quel qualcuno voleva davvero solo il suo bene.

Richard è venuto in ufficio quel giorno per ringraziarci del supporto che gli abbiamo sempre dato. Con la commozione negli occhi, ci guardava e diceva di voler far qualcosa di importante. Ha aperto la cerniera di una tasca dei pantaloni e ha tirato fuori un coltello.

Io e la coordinatrice siamo rimaste impietrite e non capivamo davvero quello che stesse succedendo.

Ma Richard stava compiendo qualcosa di grande, ci consegnava quel coltello, che aveva sempre con sé, perché ora, finalmente, si sentiva al sicuro e sentiva di potersi fidare di qualcuno. Di noi.

Ringrazio Richard per aver deciso di concederci questa fiducia, ammiro lui per il coraggio che ha e ha avuto nell’affrontare le difficoltà della vita. Molte delle persone ospitate nei nostri centri preferiscono lamentarsi e piangersi addosso. È più facile e così si arrendono alle difficoltà future e ai drammi vissuti. E’ necessario invece fare un grande sforzo: trovare la forza in sé per affrontare le proprie debolezze e prendere in mano la propria vita.

In quel momento, con le lacrime agli occhi, ho capito davvero il senso del mio lavoro: a volte non è importante cosa riesci a proporre, scuola o corsi di formazione, a volte serve solo ESSERCI.

Essere lì per sostenere i nostri ospiti, dar loro forza nei momenti di sconforto, accompagnarli nei loro percorsi di vita per aiutarli a realizzare un obiettivo immenso: riuscire a star bene con sé stessi e con gli altri. Ora sì, so perché faccio il mio lavoro. Grazie Richard.


[i] Richard è un nome di fantasia, per tutelare la privacy dell’ospite.