Cinque mesi fa, grazie a un progetto del Servizio Volontario Europeo, sono partita per il Nepal. Erano mesi, o forse anni, che cercavo un’esperienza di volontariato nel Sud del Mondo. Ci pensavo fin dagli anni dell’università quando, dopo una bella lezione di filosofia, decisi di fare una tesi sull’altro e un prof mi rispose che l’altro è un lavoro per la vita, non una tesi. Cambiai professore, scrissi comunque la mia tesi e conservai la mia curiosità per l’altro, il diverso, lo straniero.
Non c’è bisogno di andare dall’altra parte del mondo per incontrare l’altro, perché ‘altro’ è chiunque all’infuori di me e non c’è nemmeno bisogno di andare dall’altra parte del mondo per incontrare lo straniero, perché le nostre città traboccano di uomini e donne provenienti da ogni angolo della terra. Così per molti anni ho soddisfatto la mia “curiosità”, facendo volontariato prima a Casa Itaca e poi a Casa Elim, insegnando italiano a rifugiati o minori stranieri. Ogni incontro era un viaggio: Iran, Iraq, Tunisia, Algeria, Punjab, Bangladesh, Senegal, Guinea Bissau, Eritrea, Egitto, Albania, Kosovo. Ogni incontro era un esercizio di ospitalità reciproca, eppure io rimanevo la ‘padrona di casa’, continuavo ad abitare le mie tradizioni e a parlare la mia lingua e la insegnavo loro perché potessimo comunicare.
Partire e andare a vivere in un altro paese per dieci mesi significa saltare dall’altro lato del confine e diventare in prima persona lo straniero, il bianco, il diverso, quello che non sa la lingua e non capisce i cartelli e la maggior parte dei discorsi delle persone intorno a sé, quello in coda all’ufficio immigrazione per richiedere il visto. Significa adattarsi a un cibo che il tuo stomaco fa fatica ad assimilare, significa accettare che i tuoi padroni di casa non uccidano i topi perché li considerano emissari del dio Ganesh e che i vicini ridano di te mentre cerchi di fare maldestramente il bucato a mano dopo 26 anni di lavatrici.
Mi trovo in un villaggio sperduto a 15 km da Kathmandu e svolgo la mia attività di volontariato in un orfanotrofio femminile, Moonlight Children’s Home, con 21 bambine di età compresa tra i 4 e i 14 anni. Tre mattine a settimana insegno inglese nella prima elementare di una scuola pubblica, mentre il giovedì e il venerdì insegno Moral Education in una scuola privata. Passo la maggior parte delle mie giornate in compagnia di bambini e questo ha contribuito ad aumentare ulteriormente il numero di sguardi e prospettive che questa esperienza mi sta regalando. Capisco ora più di prima la celeberrima frase di Proust per cui “il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”. L’incontro con un mondo completamente diverso dal proprio, con culture e religioni così lontane dalle nostre affina i sensi e ci costringe a cambiare il nostro punto di osservazione o quanto meno a metterlo in dubbio e ad arricchirlo. È ciò che avviene ogni qualvolta incontriamo un altro uomo e decidiamo di fargli spazio, ogni qualvolta ci ricordiamo che conoscere e accogliere l’altro non è solo un lavoro per la vita, ma forse il più grande e il più soddisfacente a cui siamo chiamati.
Sara Colombo