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foto Da Onesimo a San Pietro“Tutte le cose arrivano gradualmente”. È la frase che Rita Gaeta, responsabile dell’area trattamentale della casa circondariale di Busto Arsizio, ripete come un mantra ai detenuti che ogni giorno si rivolgono al suo ufficio per chiedere, sollecitare, a volte supplicare. Era già accaduto in occasione di Expo, quando un gruppo di detenuti ha avuto la possibilità di uscire ogni giorno e recarsi al lavoro per tutta la durata dell’esposizione, così è stato anche questa volta. Con un eccellente lavoro di squadra gli operatori, la direzione ed i volontari dell’istituto sono riusciti ad organizzare la trasferta a Roma per un folto gruppo di persone che ha visto la presenza di undici detenuti, due dei quali in affidamento al servizio sociale. La regia (e non solo spirituale) di Don Silvano non ha trascurato alcun dettaglio: dallo striscione con il saluto a Papa Francesco fino alla campanella che ha voluto consegnare ad ognuno dei componenti del gruppo al momento del saluto, con un avvertimento: <>. Tutto come previsto, dunque? Non proprio.
Il cappellano del carcere di Busto ha lavorato sodo, ma questa non è una novità, per rispondere alle richieste che provenivano da Roma per organizzare la presenza di detenuti in occasione della giornata dedicata ai carcerati e alle loro famiglie per il Giubileo della Misericordia. Permessi, autorizzazioni, prenotazioni da organizzare, ma tutto è stato impeccabile. Alla partenza si sono ritrovati gli undici detenuti, due educatrici, un operatore della polizia penitenzia, due volontari, l’immancabile madre Augusta e don Silvano Brambilla che poi sono stati raggiunti a Roma dal direttore dell’istituto Orazio Sorrentini.
Sabato 5 novembre siamo arrivati a Roma, direttamente in San Pietro per le prove generali. Per qualcuno dei ragazzi detenuti, si è trattato della prima uscita dal carcere dopo anni; alcuni si sono ritrovati spaesati ed impauriti, ma l’atmosfera era talmente coinvolgente e serena da tranquillizzare gli animi.
L’accoglienza delle suore del “Casaletto” è stata impeccabile e calorosa, in un ambiente che emana pace situato in mezzo al verde alle porte di Roma.
Domenica 6 novembre era il giorno del giubileo dei carcerati. E Issam è un detenuto della casa di pena di Busto Arsizio. Otto di noi sono stati scelti per svolgere il servizio liturgico, insieme ad altri provenienti dalle carceri di Brescia e dell’Ucciardone di Palermo. Abbiamo assistito Francesco nella fase di vestizione poi siamo entrati in processione e abbiamo preso posto ai piedi dell’altare.
“Quando dal Vaticano mi hanno chiesto di individuare i detenuti per questo compito – racconta don Silvano, il cappellano di Busto Arsizio – ho segnalato che c’era un ragazzo musulmano che aveva dato la sua disponibilità e mi hanno risposto che gli avrebbero affidato un gesto importante”. Alla fine, è stato incaricato di lavare le mani di Bergoglio in sacrestia ed è stato l’unico a restare da solo con lui prima della messa durante la vestizione.
L’unica cosa che Issam ha chiesto, è stata di portare con sé nel viaggio dal carcere il proprio tappeto per la preghiera. Lo ha usato prima di raggiungere San Pietro. E di nuovo nel pomeriggio: “Io resto musulmano – rivendica – ma credo nel dialogo e nel rispetto”. Quando lo ha detto al Papa, lui lo ha abbracciato e baciato. “Gli ho chiesto di pregare per me, per la mia famiglia, per noi carcerati. Francesco mi ha detto di fare altrettanto”
“Perché ho voluto farlo? Per far capire che noi musulmani siamo diversi da quello che qualcuno vuole far credere: noi siamo per la pace”.
Ecco, questo non se l’aspettava proprio nessuno, perché non è nella norma. Ma non è tutto: c’era anche George, rumeno e ortodosso, prossimo alla Cresima, che ha fatto parte della squadra dei chierici ministranti di Busto Arsizio; Federico, argentino come Bergoglio, che ha letto in spagnolo, e Kelly – nigeriano – che ha letto in inglese. E poi gli altri, a reggere il Vangelo di fronte a Francesco, a porgergli l’acqua per lavare le mani, ad asciugarle ma, soprattutto, a guardarlo dritto negli occhi cercando di reggere all’emozione.
Qualche giorno prima della partenza per Roma ci eravamo trovati a tavola a Casa Onesimo, la struttura di accoglienza di Busto Arsizio gestita dalla Cooperativa Intrecci. Un pranzo condiviso con i volontari ed i responsabili della casa, che oltre ad ospitare richiedenti asilo è il punto di riferimento –unico sul territorio- per le persone detenute che fruiscono di permessi premio e misure alternative alla detenzione. In quell’occasione Don Silvano Brambilla ci aveva vagamente accennato alla possibilità che fossimo arrivati molto vicino a Papa Francesco, senza entrare nei dettagli per non metterci in agitazione.
Quando siamo entrati nella sacrestia, Francesco ci ha abbracciati uno ad uno e ha parlato con tutti noi, è stato un momento dirompente e tutti stiamo ancora facendo i conti con la forte carica di emozione che ci ha donato, anche perché quando siamo partiti da Busto non sapevamo di essere scelti per questo compito tra gli oltre mille presenti.
Al ritorno portiamo con noi le parole del Santo Padre, «La speranza non può essere tolta a nessuno» e, soprattutto, «perché loro e non io?»
Il Pontefice non ha infatti mancato di proporre sviluppi di portata molto concreta quando all’Angelus ha espressamente sottoposto «alla considerazione delle competenti Autorità civili di ogni Paese la possibilità di compiere, in questo Anno Santo della Misericordia, un atto di clemenza verso quei carcerati che si riterranno idonei a beneficiare di tale provvedimento».
Lui ci butta in faccia una constatazione che spesso si vorrebbe dimenticare, proprio quando ci si lascia sopraffare dai sentimenti a buon mercato, che rimangono tali. Ci parla di un’«ipocrisia», che fa sì «che non si pensa alla possibilità di cambiare vita» e ci ricorda come ci sia «poca fiducia nella riabilitazione, nel reinserimento nella società».
Quel richiamo interpella anche tutti noi, e se c’era bisogno di ricordarcelo, lo ha fatto il Papa stesso, ammonendo a che «nessuno dunque punti il dito contro qualcuno», così che tutti ci si renda invece «strumenti di misericordia, con atteggiamenti di condivisione e di rispetto», spinti sino alla «tenerezza», senza dimenticare che «anche Gesù e gli apostoli hanno fatto esperienza della prigione>>.
Quante volte, ci domandiamo davvero «perché loro e non io», e, più che a cercare giustificazioni o, comunque, risposte di tipo sociologico o psicologico, ci si impegna a trarne spunti per tradurre in pratica il ‘non giudicare’ evangelico? E quante volte, se siamo chiamati a dare un contributo di sostegno, nelle forme più varie, affinché vadano avanti gli sforzi di riabilitazione e di reinserimento di qualcuno, ci giriamo dall’altra parte?
Ecco: ripartiamo da qui, dalla Misericordia. Da un pasto condiviso che rappresenta carità, vicinanza e conoscenza reciproca.

Claudio Bottan