Ore 23. Scatta l’ora x. Siamo tutti qui, fa freschino, mi guardo intorno: facce conosciute e non, ma siamo un bel gruppo. Noi di Intrecci siamo in 17 tra ospiti, operatori e volontari. Chiara, una collega, un paio di giorni fa mi ha detto “farete il viaggio che fanno i ragazzi quando salgono da Roma e vengono portati qui”. Vero, non ci avevo pensato, ma a noi almeno la destinazione è nota: andiamo a Roma, andiamo ad incontrare il Papa per il lancio della campagna “Share the Journey” (Condividi il viaggio). E quale modo migliore per farlo, se non condividendo davvero un viaggio?
Siamo tutti qui, operatori, volontari, ospiti, giovani ragazzi, uomini e donne, bambini, tutti sulla stessa barca (sullo stesso pullman). Mi guardo intorno e vedo solo umanità. Mi chiedo come sia possibile per qualcuno suddividere il mondo in bianchi e neri, noi e loro, italiano e straniero. Sono domande che ti poni sempre, sopratutto facendo questo lavoro; per noi i nostri ragazzi sono I NOSTRI RAGAZZI, sono volti, storie, persone, per alcuni altri sono solo numeri. Oggi saliamo sul pullman con persone che hanno invece aperto le loro comunità cristiane a questi ragazzi venuti da lontano. Persone che dedicano il loro tempo libero a loro e a noi, aiutandoci, sostenendoci, rendendo più bello e ricco questo viaggio che tutti insieme stiamo facendo ormai da più di un anno.
La prima tappa la facciamo quasi subito, a pochi km fuori da Milano. Mentre torniamo al pullman io e Dafne ci giriamo e assistiamo alla prima divertente scena di questa 24 ore: ci corre dietro un ragazzo mentre si sta ancora sistemando i vestiti: “Non ti preoccupare, non ti lasciamo qui” ci guarda e sorride, l’emozione di questo viaggio è di tutti. Si riparte: il viaggio è lungo, è notte e tutti provano a riposare un po’, c’è chi ci riesce e chi no. Ogni tanto mi sveglio e guardo fuori per individuare in quale parte d’Italia stiamo transitando, è ancora buio quando tra un sonnellino e l’altro ci fermiamo in autogrill, il navigatore dice che siamo a 30 km da Roma, ci siamo ormai. Dopo la breve sosta si risale tutti in pullman e senza nemmeno accorgercene siamo arrivati al parcheggio. Qualche rapida informazione per la giornata e partiamo per cercare un bar per la colazione. Uscendo dal parcheggio lo spettacolo che ci accoglie è una Piazza San Pietro illuminata e deserta: sono le 6:30, è ancora buio, ma ci sono già le prime persone in fila per assistere all’udienza del Papa. C’è l’umanità più varia: italiani, turisti, religiosi, coppie di sposi. E poi ci siamo noi che sembriamo una classe in gita, noi con l’occhio sempre vigile per non perdere nessuno, i volontari che un po’ ci seguono e un po’ si sentono anche loro responsabili dei nostri ospiti, e poi ci sono loro, i ragazzi, alcuni che con aria navigata ti dicono “sono già stato tre volte a Roma”, altri che hanno lo sguardo dello stupore, prendono il telefono e fotografano tutto, come a voler immortalare ogni momento di una giornata diversa e speciale.
Colazione al bar e ci riuniamo tutti ai controlli. Distribuiamo bandierine, magliette, adesivi, facciamo di tutto per essere gruppo e in pochi secondi ci trasformiamo in un fiume colorato di volti stanchi, ma sorridenti.
Prendiamo posto in Piazza, non lontani dalla transenna per avere la possibilità di vedere il Papa più da vicino. E’ ancora molto presto e il tempo passa tra una chiacchiera, l’esibizione di un gruppo folcloristico messicano prima e un gruppo musicale tradizionale svizzero poi. C’è tanta attenzione e ci sono tante tante risate.
D’un tratto parte una musica e le campane cominciano a suonare: arriva il Papa. Tutti si alzano in piedi sulle sedie, per una foto, un video o anche solo per vederlo passare. Alcuni ragazzi si fanno largo tra la folla per potersi avvicinare il più possibile. Il miracolo di questa giornata è anche questo, siamo tutti qui riuniti senza nessuna differenza, senza nessuna divisione, senza nessuna (o quasi) ansia lavorativa. Siamo tutti qui per vedere ed ascoltare. E così quando il Papa comincia a parlare, dopo la lettura del Vangelo, cala un silenzio quasi surreale. Mi guardo intorno, siamo tantissimi, la piazza è piena fino oltre all’obelisco, ma è come se ora il tempo si fosse fermato, come se ciascuno di noi si fosse predisposto all’ascolto in modo così naturale e normale.
Le parole del Papa mi colpiscono molto, colpiscono tutti noi, ogni tanto mi guardo intorno e vedo tutti rapiti. Siamo talmente presi che quando nomina il nostro gruppo ce ne accorgiamo tardi e non siamo proprio performanti, ma ci rifaremo la seconda volta: quando il Papa dirà “Share the Journey” si esplode in un applauso grande come a dire CI SIAMO, SIAMO QUI.
La catechesi del Papa parla di speranza, dei nemici della speranza, parte da un riferimento laico, quello del vaso di Pandora, per dirci che nell’ultima parte di una storia di disperazione c’è uno spiraglio di luce, un piccolo dono alla fine del male. Il detto recita “finché c’è vita c’è speranza”, ma Lui lo stravolge “finchè c’è speranza c’è vita”, la speranza è quanto di più divino possa esistere nel cuore dell’uomo, ci dice che Dio non si stupisce per la fede o per la carità, che ciò lo riempie di meraviglia e commozione.
Poi ci tocca il cuore: la speranza è dei migranti, di chi crede che tutto andrà bene, nonostante tutto; la speranza è nel cuore di chi parte e di chi accoglie, CONDIVIDENDO IL VIAGGIO. Ci dice ancora che la speranza non è una virtù da gente con lo stomaco pieno, ci dice che sono i poveri quelli che hanno più speranza, racconta di come anche Gesù abbia avuto bisogno dei più poveri, degli umili per entrare nel mondo, di coloro che, pur essendo poveri di tutto, erano ricchi di voglia di cambiamento.
Un accenno anche ai più giovani, casualmente accanto a noi ci sono un gruppo di ragazzi argentini, che pur non capendo la lingua sembrano incantanti dalle parole del Santo Padre che ci dice che a volte avere tutto è una condanna, la condanna più brutta è quella di non desiderare più nulla, come se si chiudesse la porta dei desideri, dei sogni. Avere tutto rischia di lasciarci con l’anima vuota e questo è il peggior danno che possiamo fare alla speranza.
Così ci esorta nella preghiera: Signore Gesù, Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore.
Conclude dicendo quello che forse ognuno di noi ha bisogno di sentirsi dire: nessuno ci ruberà la speranza.
Dedica poi dei minuti alla campagna di Caritas Internationalis e ci dice ancora una volta che la Chiesa è, e deve essere, aperta, inclusiva ed accogliente e che anche noi siamo un impegno quotidiano per ricordare che Cristo ci chiede di accogliere con le braccia ben aperte pronte ad un abbraccio sincero, che è l’abbraccio della Chiesa madre, che è l’abbraccio del colonnato di San Pietro che in quel momento ci contiene tutti. Mentre dice queste parole i miei occhi vanno a cercare due ragazzi ospiti di Federica, che sono musulmani e sono qui con noi a condividere un momento così significativo senza nessun timore, senza nessuna remora, senza nessun muro e nessuna barriera.
Ci alziamo e preghiamo tutti insieme con il Padre Nostro, prendiamo la benedizione e la custodiamo nel cuore per noi, per tutti i nostri ragazzi, per tutti i nostri colleghi e volontari, per le nostre famiglie e le persone a noi care. Questo è il primo dono che ci portiamo a casa.
Dopo qualche minuto è finita l’udienza, ci dividiamo in piccoli gruppi e decidiamo di dedicare l’ora restante, prima del pranzo, alla visita dei dintorni. Chi fa una passeggiata, chi prova ad entrare in San Pietro, chi si ferma a guardarsi intorno. Nella passeggiata fino a Castel Sant’Angelo, il gruppetto mio e di Dafne incontra anche il banchetto di raccolta firme per sostenere la proposta di legge “Ero straniero”; ci guardiamo e non abbiamo dubbi: è oggi il giorno perfetto per dare il nostro piccolo contributo. Ci fermiamo, firmiamo e ripartiamo.
Ritornati al pullman partiamo per la pausa pranzo che sarà alla mensa dei poveri di Caritas vicino alla Stazione Termini, un breve viaggio in pullman, in cui riusciamo anche ad ammirare l’altare della patria, il Colosseo, Via dei Fori imperiali e qualche altro bello scorcio della città e arriviamo.
Scendendo dal pullman Aurora chiede ad uno dei ragazzi “hai fame? Adesso mangiamo”. Lui la guarda e con una naturalezza meravigliosa le dice “no, ho già visto il Papa, va bene così”. Forse basta a far capire che sì, è stato un viaggio massacrante, ma ha dato felicità, e questo è il secondo dono che ci portiamo a casa.
Anche il pranzo ci fa incontrare volti e storie, i volontari che animano questa mensa sono dei piccoli eroi quotidiani che fanno un pezzo di strada con chi un compagno di viaggio non ce l’ha.
Finito di pranzare si riparte alla volta di Lampugnano, il viaggio di giorno sembra non finire mai, ma siamo talmente stanchi che quasi tutti crollano quasi subito. E’ il momento perfetto per raccontarsi come si sta e stanno tutti bene, sono tutti sconvolti, con le occhiaie e mal di tutto (il pullman ha mietuto diverse vittime), ma sono tutti FELICI.
Ci sono sorrisi veri sui visi e negli occhi, c’è gioia. Si canta, si ride, ci si diverte veramente.
Cala il buio e verso le 21:30 arriviamo, scendiamo dal pullman, ci salutiamo e partiamo ancora in auto verso le nostre case.
Nel breve tragitto che ci separa da casa non posso far altro che pensare che queste 24 ore sono state davvero un momento bello, pieno e a tratti quasi magico, un vero viaggio condiviso, nel vero senso del termine, DIVISO CON.
Abbiamo condiviso la stanchezza, gli spazi, i tempi, il cibo, le emozioni e il viaggio.
Ecco il terzo dono che ci portiamo a casa: la felicità è reale solo quand’è condivisa.
Federica Di Donato