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Le storie che incontrano gli operatori sociali sono spesso storie di famiglie interrotte, spezzate, traumatizzate. Sono storie di figli in difficoltà, di genitori che hanno rinunciato al loro ruolo per frustrazione, di adozioni e di progetti falliti. Questo è un racconto, un affresco, ma soprattutto è una riflessione su un aspetto trascurato, che tuttavia tocca aspetti generali della realtà che viviamo, come operatori di Intrecci e come semplici cittadini.     

Pablo è nato lontano, in un giorno che non si sa bene quale sia. Quando aveva circa tre anni, un giorno, lo hanno ritrovato per strada e quella data è diventata la data del suo futuro compleanno. Poi è venuta la trafila dell’adozione e ora è qui con i suoi quasi trent’anni ingombranti, con la fatica a capire dove stare nel mondo e con una madre ed un padre che nomina solo con l’aggettivo adottivi posto dopo il grado di parentela. E loro sono al muro, ormai lontani dal loro desiderio di essere genitori, schiacciati da una fatica che non si riesce nemmeno a riassumere e che cerca soluzioni continue, anche se lui è ormai grande ma forse non sarà mai autonomo. La madre mi riporta tutta la sua difficoltà che un po’ si lega al mio essere madre: la bellezza dell’infanzia, il passaggio nella scuola, la certezza di poter fare tutto per un figlio, l’amore urlato dal piano di sopra (“te quiero tantissimo!”) e poi il dissolversi di tutto e l’abbandono.

Marko è giovane d’età ed è lo stigma e l’amplificazione di ogni disagio un operatore sociale possa incontrare. Se lo vuoi definire tossico lui ti regala quella parte, però potresti anche dire che è matto dopo i plurimi ingressi in psichiatria, ma anche randagio perché vive tra una stazione e un dormitorio. La sua mamma non c’è più, ma non è scomparsa: è rimasta nella sua casa, forse a ricostruire il tempo che Marco le ha rubato, dopo che certamente lei pensava di regalarglielo tutto, il suo tempo dopo l’adozione da un paese dell’est. E sicuramente sognava in grande per lui e per il fratello, ma la vita li ha sorpresi diversamente e la vicenda della maternità ha preso una piega che non poteva più essere gestita, forse.

Jonathan è un padre. Lo sguardo segnato da una vita passata per un carcere, una comunità, un tentativo di cura fallito. Il suo corpo è maestoso e forte, poi ci trovi i segni dei tagli che si è voluto tratteggiare quando il dolore e la fatica prendevano il sopravvento. Ci trovi la non disponibilità ad essere già padre, lui che figlio lo è stato in diversi modi. La mamma ha scelto di essere nonna del suo piccolo, e non può permettersi di tenerlo in casa. Jonathan deve avere un altro luogo perché lì non c’è posto. Il posto lo aveva trovato da piccoletto, poi riuscire a stare nell’adolescenza e nella giovinezza è stato difficile. Chissà cosa gli rimane dei giorni da piccolissimo per le vie del Brasile, chissà cosa hanno visto quei due occhi scuri e profondi, chissà che terra c’era sotto i suoi passi e i suoi piedi piccoli. Il papà, lui sì, ci prova ancora ad accompagnarlo a qualche colloquio, ma per mamma è davvero troppo, troppo difficile. Ora c’è la strada, ma il corpo maestoso e forte resiste o comunque trova un modo per farlo.

Poi c’è anche Carlo, appena maggiorenne, suo papà non sta per niente bene. “Sono io che dovrei curarlo”, dice. Ma la mamma non lo cerca da tanto tempo.

Ed eccoci qua, poi ci siamo noi.

Perché poi le cose passano a noi, tra di noi, attraverso di noi, operatori sociali a nostra volta, madri e padri un po’ disorientati davanti a queste situazioni, sempre portati ad intervenire sulle possibilità di presente e anche di futuro. Ma anche in difficoltà a leggere dentro questi rapporti o ad interloquire con il ruolo genitoriale. Cos’hanno in comune queste storie? L’abbandono finale, sicuramente. Forse al centro hanno tutto quel malessere misto alla rabbia, misto alla poca consapevolezza di quel che poteva accadere in un’adozione, misto alla solitudine, e forse anche all’impossibilità, che il contesto attuale ci impone, di parlare di fallimento, almeno in pubblico. Di archiviare il fallimento dentro le quattro mura di casa perché “non può succedere a me” e alla fine di aprire la porta e restituire il fallimento al mondo in modo feroce con un gesto intenso. Parlano di madri di padri e di noi le storie che vediamo tutti i giorni, ma alcune quel nome lo urlano più forte, quasi lo bestemmiano, perché non è andata come doveva o perché tutto, troppo è andato storto.

E allora proviamo a ripartire dai nomi e dai luoghi: quale comunità educante vogliamo? Quale spazio riusciamo a dare tra l’uscio della porta socchiuso e il mondo della scuola, del lavoro e di chissà che altro?

Delle madri… E’ di loro che mi piacerebbe conoscere e da loro (ri)partire. Dalle loro notti insonni, dal loro confronto in pura perdita con chi è più abile nel lavoro più difficile del mondo, dal loro tentativo di ascoltare e proporre sempre una soluzione, dalle loro aspirazioni proiettate sui figli e poi via via ridimensionate. Dal loro arrendersi ancora, tra le lacrime, ma arrendersi per sempre…

Delle madri e dei loro “accanto”: padri a loro volta affaticati, che spesso a volte rimangono un po’ di più, accompagnano ancora, provano l’ultimo slancio per sostenere ancora un po’…

E ci siamo anche noi, in questo scenario che a volte ci riguarda da vicino, altre ci chiama solo per lavoro, altre ancora ci accompagna con l’idea che occorre dare tempo, voce, spazio al mai sopito concetto di educazione.

Sabrina Gaiera