Riprendiamo le nostre riflessioni intorno alle dinamiche e alle potenzialità del cineforum nei contesti terapeutico-riabilitativi.
Prima di tutto vorrei evidenziare una dinamica psichica di cui ogni spettatore immerso nella visione di un film ha sicuramente fatto esperienza, magari senza rendersene pienamente conto: l’alterazione dello stato di coscienza indotto dal setting cinematografico. La “potenza” del cinema, infatti, è tale da generare nello spettatore uno stato di “veglia sognante”, diverso da quello che sperimentiamo nella nostra quotidianità e capace di trasportarci, entro certi limiti, al di fuori della realtà stessa. Fate partire il film che preferite, che più vi coinvolge, e verificatelo di persona: se il setting è adeguato (schermo delle giuste dimensioni e posto alla distanza corretta; luminosità attenuata; audio di buona qualità; seduta comoda; assenza di stimoli esterni distraenti) sperimenterete, soprattutto in alcuni passaggi chiave del film, un’esperienza cosiddetta immersiva. Ma cosa significa precisamente sul piano psichico? Significa che tutti i vostri canali sensoriali saranno polarizzati su quanto avviene sullo schermo, ogni attività associativa e ideativa temporaneamente bloccata, la motilità periferica inibita, l’espressione verbale soppressa. Di contro, potreste percepire una forte attivazione emotiva in corrispondenza di scene per voi coinvolgenti, al punto da scoprirvi ridere, piangere, stringere i pugni dalla rabbia o lasciar cadere sconsolati le spalle. Di fatto, la potenza del mezzo filmico vi ha condotti in uno stato alterato di coscienza caratterizzato sinergicamente da un’aumentata risonanza emotiva verso lo stimolo esterno, da un lato, e una certa passività associata a un allentamento delle difese psichiche, dall’altro lato. Si tratta di una condizione psico-fisiologica che presenta dei punti di contatto con gli stati di trance indotti da tecniche ipnotiche usate, non a caso, con fini terapeutici. In questa condizione avviene un allentamento del controllo che in situazioni “normali” ognuno esercita su sé stesso; si osserva, in altre parole, il disinnesco delle difese psichiche che normalmente mettiamo in atto, in modo del tutto inconsapevole, quando siamo posti di fronte a stimoli che ci sollecitano una reazione emotiva intensa e potenzialmente destabilizzante. Ciò rende lo “spazio filmico” un luogo privilegiato per assimilare alcuni messaggi che in altre situazioni (nel colloquio clinico, per esempio) non risulterebbero altrettanto efficacemente fruibili o richiederebbero, in ogni caso, tempi più lunghi per una loro completa elaborazione.
Il cinema, inoltre, si gioca non solo sul canale verbale, ma anche e soprattutto su quello visivo; le immagini che il regista proietta sullo schermo permettono allo spettatore di personificare sentimenti spesso difficilmente definibili a parole. Inoltre, per quanto coinvolgente possa risultare l’esperienza cinematografica, il distacco dal “testo filmico” permette allo spettatore di proiettare le proprie dinamiche psicologiche sui vari personaggi, identificandosi di volta in volta con l’uno o con l’altro senza perdere, tuttavia, la propria identità.
Proiezione e identificazione sono, in effetti, i due meccanismi psicologici alla base dell’esperienza cinematografica letta in chiave terapeutica, potenziati e agevolati dal particolare stato di coscienza indotto dall’esperienza filmica che abbiamo discusso poco fa. Vediamoli più nel dettaglio.
La proiezione è un meccanismo psicologico comune, transculturale, che ciascuno mette in atto quotidianamente e, per lo più, inconsapevolmente. In ambito psicologico e psicoanalitico, la proiezione viene considerata come un meccanismo di difesa, ovvero un’operazione mentale finalizzata a minimizzare o contenere l’angoscia derivante dal contatto con contenuti (interni o esterni) a forte impatto emotivo, e che (potenzialmente) minacciano l’integrità del sistema psichico. Eccovi alcune definizioni: «Meccanismo di difesa inconscio con cui il soggetto reagisce a eccitazioni interne spiacevoli da cui non può fuggire, negandole come proprie e attribuendole a persone o cose esterne (Galimberti U., Psicologia, 1999)» o ancora «Operazione con cui il soggetto espelle da sé e localizza nell’altro, persona o cosa, delle qualità, dei sentimenti, dei desideri e perfino degli “oggetti”, che egli non riconosce o rifiuta in sé (Laplanche J., Pontalis J.B., Enciclopedia della psicoanalisi, 1967)». Attraverso la proiezione, quindi, lo spettatore sarà portato a conferire ai personaggi emozioni, sentimenti, desideri e impulsi che sono soltanto suoi, pur non riconoscendoli come propri. Ad esempio, una persona che teme Ia propria aggressività, e che tende quindi a reprimerla, potrebbe facilmente proiettarla su un personaggio rabbioso e rivendicativo come l’impiegato William “Bill” Foster di Un giorno di ordinaria follia (J. Schumacher, 1993). Se questo spettatore viene portato a riconoscere come propria la rabbia proiettata (operazione che in psicologia è definita re-introiezione) e se viene supportato a dovere nella gestione delle ricadute, sul piano psichico, di questa nuova consapevolezza, lo stesso avrebbe finalmente accesso ai contenuti rabbiosi repressi e, col tempo, potrebbe imparare a utilizzare quella aggressività in modo costruttivo, ad esempio canalizzandola sotto forma di assertività. I fenomeni proiettivi custodiscono, perciò, una fonte ricchissima di “informazioni” sul nostro funzionamento inconscio; una fonte accessibile a patto che i contenuti proiettati diventino pienamente coscienti e che il soggetto sia in grado di “reggerne” le conseguenze sul piano psicologico. Il cineforum si rivela, in questo, uno strumento potentissimo, perché la ricchezza dei personaggi rappresentati, il particolare stato di coscienza che il mezzo filmico induce, la presenza di un conduttore che favorisce un’elaborazione successiva dei contenuti proiettati sono tutti elementi che agevolano l’emersione delle proiezioni e di conseguenza, come abbiamo visto, un’aumentata consapevolezza di sé.
L’identificazione, invece, è generalmente definita come quel processo mediante il quale un individuo costituisce la propria personalità assimilando uno o più tratti di un altro individuo e modellandosi su di essi. In un certo senso è l’operazione contraria alla proiezione, anche se, come quest’ultima, agisce per lo più inconsapevolmente e con finalità spesso “difensive” (si pensi, ad esempio, al meccanismo dell’identificazione proiettiva o a quello della identificazione con l’aggressore). L’identificazione ci permette, nell’incontro col film, di immedesimarci con i vari personaggi rappresentati, percependone i sentimenti, le emozioni, e vivendone le vicende in prima persona. Sono i processi identificativi, in fondo, che ci fanno affezionare a questo o quel personaggio e ci fanno commuovere delle sue vicissitudini. È come se consegnassimo una parte della nostra identità al personaggio, al punto che, se questo muore per esigenze di sceneggiatura, se gli accade qualcosa di spiacevole, possiamo faticare molto ad accettarlo opponendo una certa “resistenza” alla trama o, nei casi più “gravi”, possiamo prendercela direttamente con gli sceneggiatori (questa “resistenza” è stata ben rappresentata, in forma terrorizzante, nel film Misery non deve morire di Rob Reiner, tratto dal celebre romanzo di Stephen King). In ogni caso, parlare di “imitazione” o “assimilazione” nei processi identificativi è riduttivo; non si tratta qui semplicemente di assorbire il punto di vista del personaggio. Attraverso l’identificazione lo spettatore è portato a “dare forma” a contenuti mentali prima solo abbozzati; come se si rispecchiasse su una superficie in grado di rifletterne un’immagine più ricca e articolata, complessa.
Anche nel caso dell’identificazione, quindi, siamo di fronte a una possibilità conoscitiva che amplifica (se ben guidata) la consapevolezza di sé, e questo processo, nel caso del film, è potenziato perché ancorato all’esperienza emozionale in cui lo spettatore è immerso e che vive in prima persona, piuttosto che a uno scambio di informazioni che avviene “solo” a livello intellettuale.
Potremmo chiosare con le parole dello psicoanalista e filosofo Cesare Musatti che: «[…] per effetto dell’identificazione, lo spettatore è di volta in volta tutti i singoli personaggi, mentre per effetto della proiezione i singoli personaggi sono sempre lo stesso spettatore (Musatti C., Scritti sul cinema, 1961)».
In definitiva possiamo dire che, se incanalate correttamente (da qui l’importanza, nel cineforum, del ruolo del conduttore) le dinamiche proiettive e identificative indotte dal mezzo cinematografico posso condurci verso una maggiore consapevolezza di aspetti profondi e preziosi della nostra psiche. Nel prossimo “episodio” proverò a portare degli esempi reali di come si possa lavorare con queste dinamiche nell’attività di cineforum condotta in contesti comunitari.
Diego Corti
A questo link l’articolo “Il cineforum come strumento nei contesti terapeutici: il caso del Signore degli anelli”