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Come ogni giovedì disponiamo le sedie a formare un cerchio e prendiamo posto. Si scambia qualche battuta, c’è chi si schiarisce la gola, chi parlotta col vicino, qualcuno guarda nella mia direzione aspettando il segnale di via. È il giovedì del cineforum qui nella comunità terapeutica “Alda Merini”, e per quanto il gruppo sia ormai piuttosto rodato, l’attesa di prendere parola è sempre condita da una certa trepidazione. Prendere parola, infatti, quando quella parola racconta della nostra interiorità (a maggior ragione in un contesto di gruppo), non è mai un atto neutro: è un gesto creativo che richiede uno sforzo, che esteriorizza e plasma sentimenti, speranze, ansietà, e le espone all’ascolto dell’Altro. È un “mettersi a nudo” che suscita sempre qualche resistenza, qualche tentennamento; come quando, prima di un tuffo, si esita incerti sul bordo del trampolino, frenati dalla paura dell’impatto ma pregustando già il momento liberatorio del contatto con l’acqua. E allora via, prendiamo un’ultima, profonda inspirazione e… saltiamo!

Oggi il film (o meglio, i film, trattandosi di una trilogia) che affrontiamo è l’oramai “celeberrimo” e pluripremiato “Il Signore degli Anelli”, la trasposizione cinematografica del romanzo epic-fantasy di Tolkien. Il romanzo e, ancor più, il film, sono così conosciuti da rendere forzato l’atto di ripercorrerne la trama, ma consiglio caldamente il lettore che ha la (s)fortuna di non avere ancora incontrato l’opera in oggetto di buttarcisi sopra senza indugi e di tornare, in un secondo momento, alla lettura di questo articolo. Per quello che ci interessa qui, è sufficiente sottolineare come l’epopea che vede Frodo e la sua Compagnia impegnati nell’eterna lotta tra Luce e Tenebre cavalchi tutti i tópoi cari al poema epico-cavalleresco, a sua volta ispirato a figure e trame narrative radicate nella cultura occidentale (e non solo) fin da Omero. Le immagini dell’eroe, della donna-amata-da-salvare, del drago-mostro, dello scudiero-amico, del saggio-sciamano, del cavaliere-senza-macchia si ritracciano, sotto varie declinazioni e in diverse varianti, non solo nella letteratura medievale, ma anche nel dominio delle fiabe, delle tradizioni popolari su cui si fondano cerimonie e riti pubblici ancora in uso, nella narrativa contemporanea e in molta della produzione cinematografica del XX secolo, fino ad arrivare ai film “blockbuster” dell’universo Marvel, oggi così in voga.  

Queste “immagini” sono, per dirla con Jung, archetipiche: la loro ubiquitaria ricorrenza in culture distanti nel tempo e/o nello spazio non è casuale, ma è frutto della struttura stessa della nostra psiche, naturalmente portata a rappresentare attraverso questi temi e queste immagini le varie fasi di vita che ogni essere umano incontra nel suo percorso di crescita. Gli “archetipi”, nella visione junghiana, sono forme a priori delle rappresentazioni psichiche iscritte nella nostra genetica, sostenute dalla struttura anatomo-fisiologica stessa del cervello, plasmate e sedimentate dal constante impatto con l’ambiente (naturale, sociale e culturale) circostante. Data la loro forza evocativa, queste immagini si prestano particolarmente al lavoro psicologico, perché il loro contenuto simbolico favorisce l’innesco di processi identificativi e di proiezione che permettono al fruitore di rispecchiarsi nell’immagine stessa e nella storia collettiva in cui è collocata. In questo modo l’esperienza, anche la più dolorosa, passa dal piano personale e quello collettivo, viene condivisa e generalizzata; una delusione d’amore, un lutto, una crisi esistenziale, non sono più rappresentati dalla persona che li subisce come una maledizione ingiusta toccata a lei sola – e di cui, al limite, incolparsi – ma vengono colti nella loro natura universale, tipicamente umana. Rispecchiarsi nelle immagini archetipiche, in questo senso, ci fa sentire meno soli, meno colpevoli e, quindi, più propensi ad accogliere, approfondire e condividere le nostre esperienze, per quanto dolorose e umilianti ci possano apparire.

Tornando al cineforum, oggi voglio rivolgere una sola domanda al gruppo: “Quale personaggio, tra i tanti di cui la trilogia racconta le gesta, vi ha maggiormente impressionato?”. È una domanda, questa, che porta alla luce i processi identificativi di ciascuno: un film, un romanzo, una fiaba, infatti, tenderanno a colpire in modo soggettivo persone differenti, perché differenti sono i contenuti che la psiche di ciascuno (più o meno inconsciamente) tenderà a proiettare all’esterno, cercando (nel film, nel romanzo, nella fiaba) quegli elementi che meglio la rappresentano in quel dato momento. Riporto, a titolo di esempio, qualche stralcio della discussione di gruppo.


Lora è la prima a prendere parola: “Il personaggio che mi ha colpito di più è Gollum! Non saprei dire bene perché e la scelta pare anche a me un po’ strana… per molti è un personaggio negativo ma io credo che, in fondo, lui non abbia colpe per il suo comportamento. È vittima di una forza più grande di lui. E poi è diviso, una parte di lui vorrebbe tradire tutto e tutti in nome dell’anello e del suo fascino, ma un’altra parte è solidale a Frodo e sembra lottare per il bene!”.
Lora ha diciannove anni e un passato ferito da troppi abbandoni, è in Alda Merini da circa un anno e negli ultimi mesi sta facendo i conti con i suoi stessi lati autodistruttivi. A volte si riempie di rabbia; una rabbia che urla, acceca e si sfoga sugli oggetti, quando si esprime all’esterno, o verso il corpo di Lora stessa, quando si rivolge indietro. In quei momenti non c’è molto che si possa fare, bisogna contenere, rassicurare e, soprattutto, aspettare che la marea si plachi e che Lora ritorni in possesso della sua parola e del suo sorriso, di norma così contagiosi. Commento la sua scelta: “Potrebbe essere che Gollum, in questo momento della tua vita, rappresenti un conflitto di cui stai diventando più consapevole? Da un lato sei attratta da alcune dinamiche potenti, che sul momento ti sollevano dal dolore e promettono soluzioni, ma che alla lunga ti isolano e sfibrano anima e corpo… proprio come accade al povero Gollum, logorato dallo stesso potere che tenta incessantemente di agguantare”. Lora: “Si, potrebbe essere… mi ha molto colpito anche il suo sacrificio finale… in fondo, è anche grazie a lui se la Compagnia riesce a portare a termine il suo compito e a distruggere l’anello… però è molto triste, Gollum muore inseguendo il suo amato tesoro…”. “Forse…”, commento, “…rinunciare alle nostre parti più distruttive – a al potere che ci sembra promettano – è necessario per impedire al disordine di prendere il sopravvento. In ognuno di noi, credo, c’è un Gollum che fatica a separarsi dalla sua distruttività, e se non è possibile trovare una mediazione, negoziare, bisogna allora avere il coraggio di sacrificare quelle parti, per permettere ad altre di emergere e svilupparsi”.

Ora è Daniele a voler dire la sua. Ventotto anni, sguardo vispo e penetrante, è uno degli ospiti “storici” della comunità. Il suo percorso in Alda Merini è in via di conclusione, ed è in attesa di una comunità a minore intensità (a “bassa protezione”, come si dice in gergo) in cui mettere alla prova le acquisizioni maturate in questi anni e che tutta l’equipe gli riconosce. “Prima di dire la mia sul personaggio che mi ha colpito…” – esordisce – “… voglio fare una riflessione generale sul film: nella Compagnia ci sono molti personaggi eroici, tutti diversi tra loro. Uomini, nani, elfi, maghi e altre creature, pur nella loro diversità, dimostrano di essere in grado di mettere da parte le divergenze per raggiungere uno scopo comune. Anzi, alla fine, pensandoci bene, quelle differenze sono anche il loro punto di forza, perché li rendono complementari e imprevedibili in combattimento, mentre le orde di Sauron sono tutte composte dagli stessi orchi, brutali ma un po’ tonti… mi piacerebbe che anche tra di noi, pur nelle differenze che ci contraddistinguono, ci fosse la stessa filosofia e lo stesso spirito di gruppo”. Restiamo tutti imbambolati per qualche secondo… evidentemente, non ci aspettavamo un’uscita così ficcante e ben calibrata! Dopodiché l’applauso parte spontaneo, e non ritengo necessari ulteriori approfondimenti. “Per quanto riguarda il personaggio” – prosegue Daniele – “il mio preferito è senza dubbio Aragorn”. Aragorn, ovvero l’erede legittimo al trono di Gondor che, esule e sfiduciato rispetto alla natura umana, compirà il suo lungo tragitto attraverso mille peripezie e prove fino alla sua incoronazione; non mi sorprende che Daniele abbia scelto questo personaggio come il più rappresentativo del momento di vita in cui si trova. Aragorn è, infatti, un personaggio paradigmatico della posizione dell’eroe e del suo “viaggio”: il “Viaggio dell’Eroe” rappresenta una struttura portante e ricorrente di gran parte delle narrazioni (fiabesche, mitologiche, cinematografiche) di carattere popolare. Questa prevede un qualche tipo di eroe a cui capita di dover portare a termine una missione atta a ristabilire una condizione di equilibrio, di ritorno dalla quale l’eroe risulta cambiato possibilmente in meglio, arricchito sul piano umano e pronto a riprendere il suo posto nella comunità con una nuova consapevolezza di sé e del suo ruolo nella comunità stessa. Sul piano psicologico, l’Eroe rappresenta anche la posizione dell’Io (della coscienza; della volontà) che “lotta” contro l’impulsività e l’esplosività dell’inconscio, contro la sua rabbia e le sue compulsioni, per ottenere un’aumentata capacità di gestione delle proprie risorse psichiche e relazionali. Questa tema, per esempio, è ben visibile nelle tante narrazioni in cui l’Eroe deve affrontare e sconfiggere il Drago, nella cui tana è avidamente custodito un tesoro (risorse psichiche) o sadicamente sequestrata una fanciulla desiderata (risorse relazionali) che possono essere liberati solo tramite la sua uccisione. Daniele: “Di Aragorn mi colpisce la risolutezza e il coraggio… è consapevole di non poter portare l’anello perché troppo esposto al suo potere seduttivo per resistergli, ma decide comunque di guidare la Compagnia verso il suo obiettivo e, alla fine, riconquista il trono che gli spetta di diritto”, e ancora: “Mi ha colpito anche la sua storia d’amore con Arwen, disposta a rinunciare all’immortalità pur di poter stare con lui… mi è sembrato un bell’esempio della forza dell’amore, che sa superare anche gli ostacoli più inaggirabili”. Tutti, nel gruppo, sanno a cosa si sta riferendo; di recente, infatti, Daniele si è molto avvicinato a un’altra ragazza della struttura, e insieme stanno immaginando come potrebbe essere la loro vita fuori dalla comunità. Le aspettative e le speranze per i progetti futuri si confondono, in questa fase delicata, col timore e le ansie che il cambio di comunità possa minacciare la loro relazione; anche qui, il film offre un’immagine solida e rincuorante di “resilienza” tra innamorati. Tutti noi, del resto, tifiamo per loro.

Per concludere, spero che questo breve articolo abbia, almeno in parte, reso giustizia alle potenzialità che uno strumento come il cineforum può esprimere nei contesti terapeutici. Nelle prossime “puntate” entrerò più nello specifico nelle dinamiche che lo rendono così prezioso; per ora non mi resta che augurare al lettore buona visione!

Diego Corti

Info: cpamerini@coopintrecci.it