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Si chiamava Ndione Mbaye, ma tutti lo conoscevano semplicemente come Ndione o, all’inglese, John. Era nato poco più di sessant’anni fa in Senegal. Era una persona taciturna e riservata, Ndione, e forse è per questo motivo che quei sessant’anni di vita che aveva alla spalle erano sconosciuti o quasi a tutti. Di lui si sapeva poco, o almeno ne sapevamo poco noi, i suoi colleghi di lavoro.

Lavorava in cooperativa Intrecci da qualche mese, Ndione, ricopriva il ruolo di custode sostituto, cioè di colui che arrivava a sostituire i colleghi che andavano in ferie, o che erano in malattia. Un lavoro già di per sé duro, quello di operatore serale e notturno, che costringe ad orari difficili e al confronto continuo con tutta la strana umanità che popola le strutture di accoglienza di Intrecci. Da sostituto, era anche costretto a frequenti spostamenti, e a ricominciare ogni volta, ad andare a coprire i buchi che si aprivano con le assenze di uno o di un altro collega. Lo ha sempre fatto senza mai lamentarsi, portando il suo sorriso e le sue poche parole tra Varese, Rho, Gallarate, Busto Arsizio, Parabiago, Canegrate. Era una persona silenziosa, che parlava poco e quasi mai di se stesso.

Da qualche settimana avevamo saputo che era stato male, e che gli era stata diagnosticata una malattia che non gli avrebbe lasciato scampo. Non poteva più lavorare, e molti di noi hanno sentito la sua mancanza. Molti di noi si sono anche chiesti cosa fosse andato storto, come fosse stato possibile che né lui, né noi, né nessun altro si fosse accorto del male che lo stava divorando. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla e nulla si sarebbe potuto fare, ma resta l’amarezza di essersi resi conto troppo tardi della sua solitudine.

Ndione se n’è andato il 13 settembre scorso, in silenzio ed in punta di piedi, come era arrivato.

Dario Giacobazzi