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Riflessioni dal Servizio Accoglienza e Integrazione di Rho

Il lavoro all’interno di un SAI, Sistema Accoglienza e Integrazione, dà a noi operatori l’opportunità di incontrare persone provenienti da diverse parti del mondo. Spesso si tratta di Paesi distanti non solo dal punto vista geografico, ma a volte anche “lontani” da un punto di vista culturale. Ho avuto modo, qualche giorno fa, di fermarmi a parlare con una persona che ha vissuto l’esperienza migratoria verso l’Italia. Ho cercato di saperne di più in merito al Paese di origine in relazione all’esperienza che lo ha portato a condurre una nuova vita nel milanese. Si tratta di un beneficiario del SAI di Rho.

L’idea era quella di scrivere un articolo che potesse, nel suo piccolo, tenere alta l’attenzione su quanto accade nel Paese di origine di questa persona attraverso il racconto della sua storia. Sono rimasto piacevolmente colpito dallo spunto di riflessione che è nato durante la nostra conversazione. 

Parlando tra noi ci siamo subito soffermati a riflettere su quanto sia realmente importante l’elemento della distanza culturale tra le persone se si tiene in considerazione un parametro che può paradossalmente annullare ogni tipo di distanza; ovvero quel filo conduttore che unisce tutti noi e che si individua nel semplice fatto di esistere, tutti, in qualità di esseri umani.

Agiamo spinti dalle stesse pulsioni e cerchiamo, se pur in modo diverso, le stesse cose. Il nostro (di tutti) essere umani ci unisce indissolubilmente.  

Questa visione è nata dal momento in cui il mio interlocutore mi ha chiesto di rimanere anonimo, e quindi di non essere citato nell’articolo. Quasi a sottolineare che un nome, un volto, e un Paese possono forse essere elementi fin troppo fuorvianti se si intende mettere al centro del proprio pensare l’idea che l’essere umano, inteso come agire da umani, sia appunto l’unico vero elemento da tenere in considerazione quando si parla di distanze, di Paesi “altri”. Le distanze esistono, ma non possono costituire una barriera.

La richiesta di non dare rilevanza al proprio nome, alla propria storia personale e a quella del Paese di origine, porta al centro della riflessione la persona. Con forza.  E lo fa rinunciando ad accendere un focus su un preciso Paese, su una vita in particolare, ma ottiene in cambio l’universalità di uno sguardo che appartiene a tutti noi.

Può sembrare scontato e banale ricordare che in fondo siamo tutti esseri umani e che, come tali, dobbiamo sforzarci di convivere pacificamente ma forse può servire a rimanere uniti in questo intento. 

Il mio interlocutore rinuncia per un attimo a questo sguardo universale e si concentra sul mio Paese, l’Italia. Non può fare a meno di sottolineare che ormai da più di vent’anni il fenomeno dell’immigrazione è entrato a far parte della vita politica e sociale di questo Paese. E non può fare a meno di sottolineare che purtroppo, a suo avviso, c’è ancora bisogno di ricordare a sé stesso e a tutti noi che l’unico modo di affrontare questa sfida è quella di sentirci umani, tutti.

Aggiunge che solo mettendo la persona al centro possiamo capire e capirci; solo mettendo la persona al centro possiamo imparare a tollerare e a convivere con i legittimi dubbi che nascono da un illegittimo squilibrio sociale che costringe intere masse a spostarsi da un luogo ad un altro.

La nostra conversazione si conclude con l’auspicio che questa visione possa mettere radici sempre più solide nella mente di ognuno di noi.

Mi piace pensare che queste radici abbiano bisogno di una cura quotidiana, e che sia quindi nostro dovere tenere al centro del dibattito parole importanti che le alimentino.

Due su tutte: essere umani. 

Andrea Bianchi