Quasi casualmente, questa estate ho acquistato in edicola il dvd Nomadland. Sapevo che il film della giovane regista americana C. Zhao aveva ricevuto molti premi e anche diverse critiche e che prendeva spunto dal libro “Surviving America in the 20th sec” in cui l’autrice J. Bruder racconta lo stile di vita di una fascia della popolazione americana – quella in età avanzata ma non vecchia, quella che lavora ma è precaria – che a seguito della crisi economica del 2007-09 decide di vivere “in transito viaggiando in lungo e in largo negli USA in base al clima e alle opportunità di lavoro”.
Brevemente, il film ambientato alla fine degli anni 80 racconta la storia di Fern, donna adulta costretta a lasciare la propria casa perché rimasta senza lavoro e, dopo una lunga malattia del marito, vedova. Fern non ha più legami con la cittadina di Empire (Nevada), vive in una macchina da lei modificata dove tiene gli oggetti più cari e utili, spostandosi di parcheggio in parcheggio e di Stato in Stato in base alle opportunità di lavoro saltuario che trova, saltando dai magazzini di Amazon a quelli di Wall Drug, dal posteggio dei camper al fast food per tornare, come in un cerchio produttivo, ad Amazon l’anno dopo.
Fern, come lei stessa risponde nel film alla domanda di una giovane ragazza che la riconosce, non è una homeless ma una houseless. Non è una “senzatetto” ma una “senzacasa”, sottigliezza linguistica anglosassone che in italiano non trova significato ma che invece è nella cultura americana, sostanziale. Il senzatetto dorme in spazi ricavati, strappati alla strada, tendenzialmente sempre gli stessi, portandosi appresso tutto quello che possiede. Di solito ha reciso i rapporti familiari e amicali. Di solito non lavora ma si barcamena. Il senzacasa dorme in una macchina o furgone, che in qualche modo riproduce un contesto domestico, e si sposta, viaggia, attraversa. Mantiene rapporti affettivi e amicali, anche se fatti di incontri e arrivederci, cerca e trova lavoro per poter vivere in modo indipendente. Senza un posto fisso dove stare, Fern deve andare, deve vivere da nomade.
Mi sono chiesta: Fern sceglie? Una donna sola, senza tutele lavorative, senza ammortizzatori sociali, senza una rete comunitaria che la protegga, anche se vive nel Paese più ricco del mondo, cosa può fare? Quali radici possono tenerla legata a Empire, cittadina fantasma dopo la crisi economica che ha falciato la classe operaia americana? Per noi europei, con la nostra storia millenaria in cui la casa rappresenta l’identità familiare, il luogo dell’intimità e della protezione, lo spazio in cui essere sè stessi e da cui guardare il mondo esterno, è forse poco comprensibile immaginare uno stile di vita nomade, il vagabondare negli immensi spazi, in solitudine, come i pionieri alla conquista del west. Fern subisce il sistema economico e sociale americano capitalista, sceglie però di non annichilirsi, di decidere dove e quando, sceglie con chi passare il suo tempo e quando è ora di salutarsi.
L’anziano Bob Wells, che nel film interpreta se stesso cioè una sorta di spirito guida degli houseless che incontra nei momenti di raduno in mezzo al deserto, rivolgendosi a loro dice “..il cavallo da soma è disposto a lavorare fino all’estremo per poi essere messo da parte e questo accade a così tanti di noi.. se la società vuole gettarci via, mettere noi cavalli da soma da parte, noi dobbiamo radunarci e prenderci cura l’uno degli altri..”. Allora, mi viene da pensare, gli houseless sono una comunità fluida, che si attrezza per resistere, per esistere, per proteggersi da chi avrebbe dovuto farlo, la società. Sono donne e uomini che scelgono di non possedere un luogo, uno spazio, ma di attraversarlo e viverlo senza confini, senza muri, e a cui Bob Wells dice: “una delle cose che più amo di questa vita è che non c’è mai un addio definitivo. Io non dico mai addio per sempre, ma dico solo “ci vediamo lungo la strada”.
Barbara Casasola