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nlmar2014 frederickCon la vicenda di Frederick ha fatto in qualche modo capolino nelle nostre vite la guerra. Gli scenari lontani delle primavere arabe proiettati dalla televisione, dalla rete, da twitter, si sono fatti vicini sulla pelle delle persone profughe dal Nord Africa, nel groviglio delle emozioni impazzite e della memoria ferita.
Di esperienze il nostro Frederick ne ha davvero vissute molte. L’emigrazione dal delta del Niger verso le coste della Libia, l’improvviso imbarcarsi per l’Europa e l’approdo a Lampedusa, un approdo ma non un arrivo. Dalla piccola isola incastonata nel Mediterraneo si riparte infatti per Milano, dove – dopo giorni senza poter posare il capo – finalmente si sosta. Ma attenzione, anche questa volta non si è arrivati. Si riparte per un viaggio non più fisico: si entra nel tunnel burocratico per ottenere un permesso di soggiorno, mentre i giorni passano alla vuoti, con la speranza di costruire qualcosa di nuovo. A condividere queste esperienze altri giovani uomini provenienti da altri paesi del continente africano. Ad accompagnarli in questo percorso, una rete di operatori, volontari e servizi istituzionali.
Accanto a questa spinta verso il futuro si fa largo a poco a poco in Frederick la nostalgia per la propria famiglia, un intimo dolore per la distanza che lo separa dalle sue radici. E poi l’identità che vacilla e le domande che non hanno risposta: chi sono io? Cosa pensano di me gli altri? Riuscirò mai a rivedere la mia famiglia? Tornare a casa o rimanere?
Di fronte all’impossibilità di inserirsi, di trovare una via per l’autonomia, si fa strada il pensiero che forse sarebbe stato meglio non partire, forse “era meglio morire sotto i bombardamenti”. Frederick a poco a poco ripiomba nella tempesta, la sua vita e la sua mente si fanno “traversata”, le onde sembrano risommergere l’esistenza e la notte incombe con la sensazione di essere ancora nel mezzo del canale di Sicilia, fra voci di disperazione, pianti di bambini, urla di sconforto, mutismo rassegnato.
Proprio in una di queste notti il desiderio di fuga prende il soppravvento: bisogna fuggire da questa “casa degli spiriti” che è ormai diventata l’Italia. Basta un salto nel vuoto – giù, oltre la finestra – e Frederick si ritrova ricoverato in ospedale.
Si riparte di nuovo. Da qui ricomincia il percorso di risalita fisica e mentale di Frederick. Mesi di ricovero ospedaliero e di vita in una struttura riabilitativa ad alta protezione. Con il supporto degli operatori sanitari si consolida poco alla volta il pensiero che l’unica ripartenza possibile è il ritorno, il ricongiungersi con le sue origini come unica cura. Ma per tornare ci vuole coraggio. Tornare significa confrontarsi con il fallimento, con il giudizio di inadeguatezza espresso dal proprio ambiente di appartenenza, con la percezione che il desiderio di riscatto può fallire non solo per quell’uomo che torna, ma potenzialmente per tutti.
Tornare può essere una ferita per sé e per l’intera comunità.
Frederick ha però trovato questo coraggio. Il coraggio di tornare nella sua terra, affrontando la paura del fallimento e vivendo l’esperienza del ritorno, malgrado il timore di essere rifiutato. Nel tornare il nostro Frederick è stato però sostenuto con un programma di Ritorno Volontario Assistito (RVA), in collaborazione con l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (OIM).
La storia di Frederick è quella di un uomo che, per sostenere il futuro dei suoi figli, ha affrontato il deserto, la discriminazione, la guerra, un’accoglienza non sempre a misura d’uomo. Ma è anche la storia di un uomo che ha affrontato il ritorno a casa: forse in molti lo invidiano per questo coraggio che rimane troppo spesso un desiderio inconfessabile.
Aspettiamo da Frederick una lettera che ci dica; “Sono arrivato, qui tutto bene. Grazie di tutto, comunque sia andata. Addio o, forse, arrivederci”.

Danilo Giansanti
d.giansanti@coopintrecci.it