Per la burocrazia sono “minori stranieri non accompagnati”, sono partiti dall’Egitto, dall’Albania e dal Bangladesh per ritrovarsi, in dodici, a Casa Itaca. Quando si dice il destino scritto nei nomi! E il loro viaggio è stato davvero un’odissea, mettendo la vita costantemente a rischio per inseguire un sogno, o un miraggio. Casa Itaca è stata aperta cinque anni fa grazie a una collaborazione tra Comune di Rho, Caritas cittadina e Intrecci per ospitare famiglie e adulti in grave stato di bisogno, abitativo e sociale. Oggi è diventata il primo rifugio per minori che hanno intrapreso il grande viaggio da soli e si sono infranti sulle rive della grande città. E’ a Itaca che hanno trovato un approdo provvisorio – un progetto di appena tre mesi – e l’accoglienza di sei educatori che hanno cercato di costruire, come dice Angelo, “un ambiente accogliente, buono, sano, educato”. E con Angelo anche Danilo – che coordina l’equipe – Francesca, Olga, Andrea ed Enzo. Sono qui dal 1 ottobre e i primi due mesi sono stati vissuti di corsa, cercando di provvedere ai bisogni elementari dei ragazzi: vitto e alloggio, ma anche salute, documenti, lingua italiana e qualche esperienza di socializzazione.
E’ stata una fatica, per gli educatori, ma è ormai quasi un destino, anche questo: muoversi in fretta per rispondere alle emergenze dell’ente pubblico, costituire una nuova equipe, pronti via. I tempi contratti della partenza e l’incertezza del futuro sono gli elementi che rendono ancora più vicini gli educatori agli ospiti. Ciascuno nel proprio ruolo, ben inteso, e non sempre è facile: accogliere le lacrime per la nostalgia di mamma e papà, contenere la sana aggressività d’adolescenti, i braccio di ferro per far capire che “le pulizie non sono cosa da donne” e, soprattutto, cercare di spiegare che la distanza tra il sogno dell’Italia ricca e prospera e la realtà attuale è tutt’altro che breve.
Perché il sogno è per tutti i ragazzi più o meno uguale: partire per lasciarsi alle spalle una situazione assai depressa dal punto di vista economico, arrivare in Italia per lavorare e fare soldi, ritornare a casa. Questi i punti fermi, tutto il resto è immerso nell’indeterminatezza e nella inconsapevolezza che si possono avere quando si è giovanissimi. Fanno tenerezza i racconti di Francesca attorno alle osservazioni ingenue dei ragazzi sulla “ricchezza” degli educatori: vivi in un Paese ricco, lavori a tempo pieno, e quindi come mai non possiedi il modello più cool di cellulare e una macchina in grazia di Dio?
Non che siano ragazzi “cattivi”, tutt’altro. Tutti gli educatori confessano apertamente di considerarsi fortunati: infatti è un gruppo tranquillo, positivo, senza teste calde. Fanno riflettere gli episodi che rimarranno per sempre nel cuore di Danilo, Francesca, Olga, Andrea, Enzo e Angelo, soprattutto se li metti a confronto con i nostri adolescenti: i ragazzi che in Metrò si alzano per far sedere due donne anziane, la visita al centro diurno “Stella Polare” dove si fanno sbaciucchiare e ballano con un gruppetto di ultra-ottantenni, lo sguardo rispettoso verso chi ha più anni di loro. Ma al contempo gli educatori possono toccare con mano la tenacia della loro speranza, della loro immaginazione – i motori che li hanno spinti fin qui – e la loro grande apertura al futuro. Tutte cose che fanno a pugni con il nostro refrain di crisi e lamentela, di rinuncia e pessimismo.
Alla luce di tutto questo, si può comprendere meglio la preoccupazione degli operatori in merito al futuro di questi ragazzi, la paura che il cozzo tra la loro linfa interiore e la fredda realtà italiana si riveli più violento di quanto si pensi. Ma intanto si lavora a costruire umanità e nuova cittadinanza, come una scommessa al buio: lavorare come se tutto potesse continuare così, come se ci potesse mai essere una risposta positiva all’ennesima loro candida domanda: “Possiamo rimanere a Casa Itaca?”.
Mentre l’emergenza detta le regole del gioco e batte nervosamente il tempo, si lavora con tutti quei pezzi della città che non si sottraggono alle loro responsabilità educative e si mettono in gioco: volontari, oratori, servizi sanitari, servizi sociali, scuole. Piccole alleanze contratte nel tempo che costruiscono un volto diverso dell’Italia sognata o vista attraverso la rete globale da un villaggio del Bangladesh.
Intanto fioriscono i segni della cittadinanza che vorremmo; piccoli segnali che solo gli educatori possono riferirci: il ragazzo egiziano che indossa con naturalezza e rispetto il tradizionale pigiama bengalese, o l’albanese che chiama gli altri “bai”, che in lingua bengalese significa fratelli.
Piccoli semi che germogliano anche grazie al lavoro quotidiano: a quell’attività incessante di comprensione reciproca – a partire, ovviamente, dalla lingua – che passa attraverso le pulizie di casa, il cucinare, fare la spesa insieme.
Dopo i marosi del viaggio, anche Ulisse sarà tornato docile a questa quotidianità che fa cittadini di Itaca e del mondo?
Domenica gita al Museo di storia naturale. E poi? Poi si vedrà. Con tanta fiducia e quel po’ di coraggio.