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Persone

Non solo Lampedusa: il viaggio di K.

Sono partito dal mio paese, il Pakistan, nel settembre del 2008. Avevo 21 anni. Sognavo di arrivare in Inghilterra, di cambiare vita. Conoscevo un paio di ragazzi che erano arrivati lì, si erano sistemati, studiavano e lavoravano.

Perché hai deciso di partire?

La mia famiglia gestiva un negozio di forniture meccaniche. Gli affari non andavano molto bene, mio padre doveva chiedere in continuazione prestiti per far quadrare i conti. Le prospettive non erano buone. Se fossi rimasto, il mio destino sarebbe stato quello di lavorare nel negozio, e la nostra situazione avrebbe continuato a peggiorare. Io desideravo qualcosa di più, per me e per la mia famiglia.

Come è iniziato il tuo viaggio?

Senza pensarci troppo ho convinto mio padre che dovevo partire. Lui inizialmente non era d’accordo, ma poi si è rassegnato e mi ha aiutato. Ha preso contatti con un uomo che organizzava i viaggi degli emigranti verso l’Europa. Gli hanno chiesto 7000 dollari per farmi arrivare in Grecia. Ha dovuto chiedere prestiti e vendere l’auto, ma alla fine è riuscito ad esaudire il mio desiderio. Arrivato a quel punto sentivo tanta responsabilità sulle mie spalle, e capivo di non potermi più tirare indietro.

Siamo partiti in autobus, da Peshawar. Ero insieme ad altri due ragazzi, anche loro avevano come orizzonte quello dell’Europa. Un signore ci ha indicato il pullman sul quale salire, mentre a bordo c’era un altro uomo, più giovane, che era la nostra “guida”. Questa è una cosa che si è ripetuta durante tutto il viaggio, fino alla Grecia: le persone che avevano l’incarico di condurci si davano il cambio in continuazione, facendo solo la staffetta per un breve tratto. Nessuno sapeva chi fossero, i loro veri nomi. Ma loro sapevano chi eravamo noi. La nostra prima tappa è stata a Quetta, dopo un viaggio di circa 10 ore. Lì ci hanno condotti in una sorta di albergo di bassa categoria, dove abbiamo aspettato un paio di giorni.

Aspettato cosa, esattamente?

Quetta, e quell’albergo in particolare, veniva utilizzato come “centro di raccolta” : io e gli altri due siamo arrivati da Peshawar, il giorno dopo sono arrivati una decina di ragazzi dalla zona di Karachi, due giorni dopo dei tizi che venivano da Lahore. Da Quetta saremmo poi ripartiti tutti insieme. Anche questa è una cosa che succede di continuo: si fanno tratti di strada in gruppetti di poche unità , poi magari si diventa un grande gruppo, anche più di cinquanta persone, per tornare successivamente ad essere in pochi.

Tutti uomini?

Sì. Tutti ragazzi e tutti piuttosto giovani, perché questo tipo di viaggio non può essere tentato da donne, anziani o bambini.
Da Quetta, sempre in autobus, ci siamo spostati a Taftan, al confine con l’Iran. Anche qui c’è stata una sosta di qualche giorno, dettata dal fatto di dover attendere le “condizioni favorevoli” per l’attraversamento della frontiera (probabilmente poliziotti corrotti di cui bisognava aspettare il turno). Abbiamo attraversato il confine a piedi, in piena notte, poco lontano da un posto di polizia, passando sotto una rete sollevata e correndo poi verso alcuni furgoni che ci hanno portato a Zahedan. Un giorno di sosta e siamo ripartiti, a bordo di alcuni pick-up, viaggiando sempre di sera o di notte, con un’auto che precedeva la piccola carovana andando in avanscoperta per avvisare in caso di presenza di posti di blocco. Non so dove fossimo esattamente, ricordo che eravamo su strade di montagna, non sempre agevoli. Ad un certo punto ci hanno fatti scendere e ci hanno spiegato che bisognava proseguire a piedi, su un sentiero, per girare al largo di un posto dal quale non si doveva passare. Ricordo come fosse ieri quella “passeggiata” : quattro ore di cammino, al buio, il sentiero illuminato quasi esclusivamente dalla luna, il rischio di cadere e farsi male ed essere abbandonati lì, in mezzo al nulla, senza sapere nemmeno il nome di quel luogo. Dopo un altro “passaggio” in auto e una sosta di qualche giorno in una sorta di rifugio sperduto tra le montagne, siamo partiti alla volta di Teheran stipati su delle auto dove venivano caricate una dozzina di persone per volta: quel tratto io l’ho fatto viaggiando nel bagagliaio, insieme ad un altro ragazzo, perdendo la nozione del tempo e sentendomi male anche fisicamente; quella sensazione è uno dei ricordi più brutti che conservo.

E poi, da Teheran?

A Teheran abbiamo fatto una delle soste più lunghe, credo una decina di giorni, per poi ripartire e viaggiare a singhiozzo alternando tratti in auto, solitamente stando nascosti, spesso nel cassone di un pick-up coperti con un telo, e brevi tragitti a piedi. Brevi almeno fino al confine tra Iran e Turchia, che abbiamo “valicato” con una camminata (quasi in cordata) di circa sei ore, notturna. Lo ricordo come uno dei momenti più difficili, con il fiato che mi mancava, il freddo, la paura. In Turchia ci hanno fatto “riposare” per qualche giorno, dopodiché io e altre 7-8 persone siamo stati fatti partire per Istanbul nel bagagliaio di un autobus. Ad Istanbul siamo rimasti un paio di settimane. Ricordo di aver chiamato casa nel giorno della festa islamica dell’Eid al-Adha, di aver parlato con mia mamma e pianto insieme a lei: era la prima volta che mancavo da casa nel giorno della ricorrenza, ed ero partito da Peshawar da quasi due mesi.
Da Istanbul ci hanno portati ad Izmir, in un albergo. La sera successiva al nostro arrivo ci hanno portati su una spiaggia; c’era un gommone ad attenderci, penso potesse portare una decina di persone, ma noi eravamo almeno il doppio. Avevamo paura di salire a bordo. “Lì c’è la Grecia, chi vuole sale, chi non vuole è libero di andarsene e non farsi più vedere”. Hanno cercato qualcuno che sapesse manovrare il gommone, “loro” non sarebbero venuti. Ho pensato a tutto quello che avevo passato durante quel viaggio, all’Europa come la sognavo in quel momento, al fatto che mi stavo affidando al destino. Sono salito.
La “navigazione” è stata veloce, di poche ore, ma decisamente movimentata dalle onde alte del mare aperto. Ad un certo punto abbiamo avvistato una luce, simile a quella di un faro, e abbiamo cercato di proseguire in quella direzione. All’approdo abbiamo distrutto il gommone e il motore, per paura che potessero rimandarci indietro. L’isolotto su cui eravamo giunti era poco più di uno scoglio, ma era vicino ad un’isola decisamente più grande (della quale non ho mai saputo il nome). Finalmente eravamo in Grecia, in Europa.

All’alba dei pescherecci ci hanno visti ed hanno avvertito la polizia. Sono venuti a prenderci solo a pomeriggio inoltrato. Da quell’isola siamo stati trasferiti quasi subito, via nave, in un centro di accoglienza chiuso e recintato, su un’altra isola vicina. Lì ci hanno preso le impronte digitali, fatto avere un foglio di via, e poi messi su un’altra nave, destinazione Atene.

Ad Atene mi sono ritrovato praticamente solo, con pochi soldi in tasca, e senza più nessuna guida (il lavoro dei passatori era terminato). Ho cercato contatti. Connazionali e passatori. Greci e trafficanti. Mi sono fatto mandare altri soldi da mio padre. Con quelli mi sono mantenuto per qualche giorno in un postaccio che offriva vitto e alloggio a 6 euro al giorno. Con altri 3000 euro sono riuscito ad avere un passaporto autentico falsificato con la mia fotografia. E un visto per la Germania.

Ho “festeggiato” il capodanno del 2009 ad Atene, poi a metà gennaio ho preso un volo per Milano.

E a Milano si conclude questa tua odissea?

No, perché da Milano sono andato subito, in treno, a Roma. Ero senza documenti perché il passaporto l’avevo strappato e buttato via appena uscito dall’aeroporto: così mi avevano detto di fare. Nella capitale sapevo di poter trovare qualche contatto, e poi volevo raggiungere due ragazzi che conoscevo a Foggia; in realtà su consiglio di mio padre sono poi andato ad Ancona, e poi a Macerata, dove mi ha ospitato un connazionale che conoscevo di vista. Sono rimasto lì qualche giorno, e ho cominciato ad apprezzare il luogo nel quale mi trovavo. Ero stanco di viaggiare e di spostarmi, volevo un po’ di stabilità . Mi sono reso conto che questo era il paese in cui volevo restare, in cui volevo provare a realizzarmi. Ho deciso che sarei rimasto in Italia, che qui avrei fatto domanda di asilo politico, senza più cercare la strada verso l’Inghilterra. Ho pensato allora di raggiungere i miei conoscenti a Foggia, che stavano in un centro di accoglienza per richiedenti asilo (che ho poi scoperto essere il CARA di Borgo Mezzanone), pensavo che ci sarei potuto entrare anche io. Non avevo ancora presentato istanza d’asilo, quindi in realtà non potevo avere accesso alla struttura, ma i ragazzi mi hanno fatto passare di nascosto, e ho trascorso qualche giorno e qualche notte lì.

Sei l’unica persona che conosca che anziché scappare da un CARA ci è entrato di nascosto!

Sì! In realtà quando sono arrivato ho visto che loro stavano in questa struttura grandissima, composta da tanti prefabbricati, e mi è sembrato squallido. In più ero clandestino anche dentro il CARA e avevo paura di farmi vedere e parlare con gli operatori. Così dopo pochi giorni, a seguito di un contatto con un connazionale a Venezia, sono ripartito, e sono arrivato a Mestre. Mi sono fatto accompagnare in polizia, a Marghera, mi sono presentato per formalizzare la richiesta di asilo, ma mi hanno detto di tornare il giorno successivo. Avevo il telefono scarico, non potevo contattare nessuno, e così mi sono sistemato sotto il portico di una chiesa per passarci la notte e ripresentarmi in polizia il mattino dopo. Era il 27 gennaio, e faceva molto freddo. Mi ero già addormentato quando sono stato svegliato dal parroco della chiesa: pensavo volesse cacciarmi, invece mi ha chiesto cosa facessi lì e mi ha offerto di passare la notte al coperto. Il mattino dopo, molto presto, ho presentato la mia domanda di asilo politico.

Ed è iniziata la tua nuova vita.

Sì, sono rimasto per un po’ a Venezia, ho iniziato a studiare l’italiano, poi sono stato trasferito a Varese, dove ho conseguito il diploma di terza media. Ho lavorato come muratore, e con i soldi guadagnati mi sono pagato un corso ASA. Nel frattempo mi sono messo in regola con i documenti. Oggi sono felice, ho un lavoro, e anche se non ho raggiunto quello che era il mio sogno “inglese” mi sento fortunato: posso aiutare la mia famiglia, vivo in un paese che amo, e guardo al futuro pensando di avere tante possibilità di fronte a me.

Intervista a cura di Dario Giacobazzi