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“Per fortuna non ho fatto il viaggio nel deserto.” Così inizia la storia di Elmi, oggi operatore e collega del centro SAI (Sistema Accoglienza Integrazione) del Comune di Varese.

Gli aeroporti erano aperti, quindi sono arrivato in Libia dalla Somalia con l’aereo e ci sono rimasto per 12 anni: i miei primi 3 figli sono nati lì. In questi anni non ho avuto problemi; quando però ho perso l’ultimo lavoro, vista la situazione che si stava profilando, ho pensato che sarebbe stato meglio andare via, per dare un futuro migliore ai miei figli. Il viaggio è durato tre giorni perché il “capitano” ha inizialmente sbagliato rotta per poi rientrare, ma nel frattempo il gasolio era finito. Siamo sbarcati a Siracusa e da lì ci hanno trasferiti a Bari, in un centro enorme. Mi hanno riconosciuto una protezione per motivi umanitari. Il mio obiettivo era di andare in Svezia per raggiungere mio fratello, amici e parenti. Ho vissuto lì un anno e mezzo ma alla fine mi hanno rimpatriato in Italia perché la mia pratica era di competenza italiana. Atterrati a Milano abbiamo girato vari alberghi della zona, siamo stati aiutati da molte persone anche inaspettate, come quel signore che ci ha visti ammassati nella cabina telefonica perché fuori pioveva, con un solo ombrello e non sapevamo dove andare: senza tante parole ci ha portati alla chiesa della Brunella per un pasto caldo e un letto per dormire. Infine, dopo tanto spostarci, ci hanno detto che ci avrebbero messo in un centro di accoglienza: ed ecco il mio arrivo allo Sprar di Caronno Pertusella.

Ricordo che la responsabile, all’epoca, era Simona Felice, di lei mi è rimasta in mente la sua gentilezza. Una delle prime cose che ho fatto al centro è stata la patente, tutti pensavano fosse impossibile per me, visto che ero in Italia da soli sei mesi. Io però la volevo a tutti i costi, perché sarebbe stato più facile trovare un lavoro. Sono stato molto aiutato e alla fine ho superato l’esame di teoria. Ricordo di essere tornato al centro gridando: Mi hanno promosso! Tutti si sono congratulati e ho in mente il custode che lavorava lì che ha detto “beh se Elmi ha preso la patente, domani mi iscrivo anche io!”. Il centro mi ha aiutato molto anche con il lavoro: il primo è stato a Gazzada; io nemmeno sapevo dove fosse Gazzada, ma ho accettato subito! Lavoravo su turni, era complesso perché durante la settimana vivevo a Varese e poi nel weekend tornavo dalla mia famiglia nel centro d’accoglienza di Caronno Pertusella. Ho lavorato lì per più di tre mesi. La responsabile mi ha poi fatto un’altra proposta: lavorare in un centro di accoglienza per rifugiati a Varese, aggiungendo che avrei potuto portare la famiglia con me. Ci ho pensato un po’, ma alla fine mi sono trasferito in via Pola e non sono più andato via! Ricordo la prima sera: Umberto mi ha dato il benvenuto, mi ha spiegato tutto il lavoro e mi ha detto che avrei iniziato subito. Io sono rimasto di sasso, non conoscevo nessuno! Per fortuna c’erano due ragazzi somali che mi hanno aiutato a superare quella famosa serata del 2005!

Come ti sei sentito? Che impressione ti ha fatto incontrare dei somali in accoglienza e tu lavoravi? Eri passato dall’altra parte.

Eh sì, avevo cambiato lato. Uno dei problemi a lavorare nei centri di accoglienza arriva proprio dai tuoi connazionali. Mi spiego, questi ultimi cercano sempre di avere qualcosa in più da te, chiedono molto, sfruttando il fatto di essere uno di loro.  Forse il problema non è solo con gli altri somali ma con gli ospiti in generale: siccome sei un loro “fratello”, devi dare di più. Però qua non ci sono italiani e stranieri, qua ci sono delle regole uguali per tutti. Un’altra difficoltà è che alcune volte gli ospiti ti usano come strumento per parlare con gli operatori, diventi un tramite ma dopo un po’ di tempo superi la cosa perché inizi a capire come ti devi comportare: tutti devono essere uguali! Possono quindi capitarti questi problemi, ma in fondo non esiste un lavoro senza problemi.

Vero, però è molto particolare questo tipo di lavoro, per te più che per altri. C’è mai stato in tutti questi anni un caso che ti ha particolarmente colpito?

Una volta, con un somalo che era accolto qua, è stato difficile perché mi ha raccontato che avevano ucciso suo padre e abusato della madre e della sorella davanti a lui. Una cosa terribile. Quando è venuto qui è stato seguito da diversi specialisti che lo hanno aiutato ad affrontare il suo passato. La cosa bella è che aveva un suo obiettivo da seguire che lo spronava a andare avanti. Alla fine ha trovato un lavoro e una casa, si è sposato ed è riuscito a far venire qui la mamma e la sorella. Ora stanno bene, però la storia che mi aveva raccontato mi ha colpito molto. E’ stato qui nel 2009, eppure è ancora dentro di me. Ci sono tante storie; ogni giorno senti qualcosa di nuovo e spesso le persone che non fanno questo lavoro non credono alle storie che raccontiamo. Ma non sanno quello che c’è dietro.

Ti è mai pesato lavorare con i rifugiati?

Ogni tanto! Il problema di questo lavoro è che ci sono alcuni momenti in cui ti senti appesantito dalle situazioni; però cerco, in quei momenti, di “lavare il mio cervello” e andare a casa mia come fossi un’altra persona. Quando sono a casa mia non penso più al lavoro, a cosa farò domani, e quando lavoro penso solo a quello. Cerco sempre, per quanto possibile, di rispondere alle domande che mi vengono fatte dagli ospiti, anche se difficili, e andare avanti. Lavorando nei centri, negli anni, ho imparato anche la differenza tra le persone. Quando viene un pakistano, un arabo, un africano o un asiatico, più o meno so già come comportarmi con ciascuno di loro e quali saranno le loro richieste, una sorta di formazione continua per noi che ci lavoriamo.

Immagina di dover descrivere tutto il tuo percorso con una parola, quale sarebbe?

Continuare! Continuare a fare sempre meglio, solo così riesco ad andare avanti.

I #20diaccoglienza sono anche questo: il coraggio di andare, di rimettersi in gioco, di ritrovare sé stessi sotto una nuova forma e porgere la mano a chi ha bisogno. La forza di continuare, sempre. E sempre meglio.

Intervista a cura di Elena Pastorino

Info: caronno@coopintrecci.it