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Dopo cinque anni, chiudono i nostri Centri di accoglienza straordinaria. Su segnalazione delle Prefetture, centinaia di richiedenti asilo sono passati da noi, centinaia di vite che hanno attraversato le nostre. Centinaia di storie, di volti, di emozioni. Centinaia di delusioni e centinaia di gioie.

Una telefonata, dall’altro capo del telefono la mia responsabile di area: “Fede, sei seduta?”
“Si, sono in smart oggi…dimmi.”
“Chiudiamo”
Silenzio. Sgomento. Incredulità.
“Davvero?”
“Si, davvero… però dai, un po’ ce lo aspettavamo”.

E riparto da qui. È vero, ce lo aspettavamo da tempo ormai, ma poi succedeva sempre qualcosa che portava i progetti ad andare avanti e quindi, con il tempo, è come se si fosse creata in noi una sorta di illusione realistica che veramente i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) non avrebbero chiuso mai.

Il primo appuntamento di cui ho memoria risale al 2016. Una sera fredda, nel seminterrato di una chiesa ad Oggiona Santo Stefano.  Io e Milena andammo – io in realtà un po’ più in veste di uditore – ad incontrare questa parrocchia che decise di mettere a disposizione un appartamento per accogliere richiedenti asilo in arrivo nella provincia di Varese. Da lì poi, un po’ a macchia d’olio, si candidarono altre parrocchie: Cassano Magnago, Fagnano Olona, Luvinate; poi Castellanza, Busto Arsizio, Cocquio Trevisago, Viggiù. Infine l’accoglienza a Venegono Superiore presso i Padri Comboniani e a Casa Onesimo a Busto Arsizio.

Tanti progetti, tante realtà, tanti territori e tanti ospiti che sono passati e hanno fatto un pezzo di strada con noi.
Con alcuni abbiamo instaurato rapporti bellissimi, alcuni hanno fatto percorsi di accoglienza impegnativi, a tratti dolorosi, ma alla fine dei quali hanno trovato la loro strada, la loro indipendenza, il loro posto nel mondo.
Altri si sono fatti scivolare addosso le opportunità non investendo mai su se stessi. Alcuni sarebbe stato forse meglio non incrociarli mai, ma in fondo oggi possiamo dire che anche i più scapestrati, quelli che ci hanno fatto impazzire, quelli che non siamo mai riusciti ad agganciare, anche loro ci hanno fatto crescere, conoscere e capire profondamente pezzi del nostro lavoro che forse non avevamo messo a fuoco così chiaramente.  Passare cinque anni dentro a progetti che sono cambiati e mutati con noi ci ha permesso di crescere, di acquisire consapevolezza e ad oggi possiamo dire che, anche nelle difficoltà, lavorare insieme (insieme per davvero, tra colleghi, con le altre equipe, con i livelli più alti, con la cooperativa) è stato forse il più grande successo.
Perché è un lavoro complicato, quello con le persone, che a volte ti costringe e metterti a nudo e ti obbliga a fare i conti anche con te stesso e quando ti succede sapere che hai una rete di salvataggio che ti tiene su ti dà la forza per andare avanti.

Sarebbe facile oggi, a conclusione di questi progetti, raccontare che è stato tutto bello e semplice, ma non sarebbe vero.
È vero invece che ci sono stati tanti momenti di fatica, giorni in cui il pensiero di chiudere era l’unico che girava in testa perché stare dietro a tutto e a tutti sembrava impossibile. Tra alti e bassi, tra giorni sì e giorni no, siamo arrivati fino a qui. E cosa possiamo dire ora? Fare un bilancio? Sebbene possa sembrare scontato sì, vorrei provare a fare un bilancio, ma con un’ottica un po’ diversa.

Vite salvate: zero. Il nostro compito non è salvare vite, è dare opportunità, conoscenza, competenza e strumenti. Dare al mondo dei potenziali cittadini in grado di camminare con le loro gambe.
Operatori ed educatori passati da qui: tanti e diversi tra loro. È un bene o un male? Non sta a me dirlo, ma posso dire con certezza che ciascuno, con le sue peculiarità, è riuscito a lasciare il segno, anche dove sembrava impossibile lasciarlo.
Relazioni instaurate: non è possibile numerarle. Un’infinità, mi verrebbe da dire. Quelle tra noi, quelle con i beneficiari, quelle con i volontari, con le Parrocchie, con il territorio, con i CPIA, con gli insegnanti, gli scout, i tanti servizi che abbiamo incontrato sulla nostra strada. Tante relazioni umane, belle, meno belle, edificanti o difficili, ma ci hanno reso come siamo ora.
Beneficiari, ospiti, persone: a spanne direi centinaia. Centinaia di vite che hanno attraversato le nostre. Centinaia di storie, di volti, di emozioni. Centinaia di delusioni e centinaia di gioie. La mia responsabile, Aurora, nei momenti di difficoltà mi dice sempre “anche se fosse per uno solo, ne è valsa la pena”.
Ed ha ragione. Che sia stato solo per uno, dieci o cento, ne è valsa la pena.

Ci lasciamo così: con la nostalgia di chi vede partire un vecchio amico per una nuova avventura in giro per il mondo, ma con l’entusiasmo di chi ha una valigia piena di tante cose belle e in tasca una nuova carta di imbarco per partire verso una nuova destinazione.

Federica Di Donato
Info: f.didonato@coopintrecci.it