Ha ragione Danilo quando dice che Umberto, da uomo del Centro Italia, aveva la piazza nel cuore. La prima volta che l’ho incontrato, rimase entusiasta della foto che campeggiava allora sul desktop del mio pc: uno scorcio di Piazza del Campo, con la bandiera della Giraffa alle finestre di Palazzo pubblico. Siena in tutto il suo fulgore. Proprio nel capoluogo toscano Umberto aveva vissuto per molti anni, pur essendo originario del Viterbese; da lì aveva dovuto emigrare nelle fredde lande varesotte che, va da sé, nel cuore hanno altre cose. In quel primo nostro incontro, fu sufficiente quella foto per rompere il ghiaccio, scambiarsi ricordi, immagini, persino confidenze. Nel giro di dieci minuti ti sembrava di conoscerlo da anni; con quell’accento inconfondibile ti trasmetteva entusiasmo, prossimità senza filtri.
Penso sia la stessa cosa che hanno avvertito a pelle anche i “ragazzi” della Asso25. Sembrano passati secoli, ma era appena il 7 giugno del 2019 e nel porto di Pozzallo entrava una nave italiana – la Asso25, appunto – in servizio presso le piattaforme petrolifere a poche decine di miglia dalle coste di Tripoli. A bordo c’erano sessantadue giovani migranti, provenienti da Costa d’Avorio, Gambia e Senegal, Mali e Nigeria salvati mentre il gommone su cui viaggiavano da due giorni e mezzo si stava inesorabilmente sgonfiando.
Attorno a quell’ennesimo arrivo sulle coste italiane si scatenò il teatrino governativo a cui c’eravamo purtroppo abituati. E ci pensò la Conferenza episcopale italiana a mettere fine allo scaricabarile tra le autorità italiane ed europee. La Cei, poi la Caritas Italiana, di seguito quella Ambrosiana, per arrivare a noi della cooperativa Intrecci. Accogliemmo allora diciassette di quei ragazzi, presso il castello dei Comboniani a Venegono Superiore.
Mi piace pensare a questa catena di umanità, il cui primo anello sono state le parole del Presidente della Repubblica, proprio quel 7 giugno: “Il salvataggio di vite umane rende prestigio al nostro Paese”. Poi gli altri anelli che si sono rinsaldati, fatti di disponibilità e coraggio di metterci la faccia: passaggi che non hanno scaricato le persone come pacchi postali, ma che ne hanno affidato la cura a coloro che sono più prossimi ai territori, secondo la logica dell’accoglienza diffusa. E così, di mano in mano, i “ragazzi” sono arrivati a noi, a Umberto, che ha ben rappresentato questo prendersi cura. Umberto ufficialmente era il custode della struttura di accoglienza, ma è stato molto di più.
Ora lui non c’è più, portato via dal Covid, ritornato più forte nei paesi della provincia di Varese. Ha lottato per tanti giorni in terapia intensiva, ma non è guarito.
Nelle testimonianze di questi giorni, da parte dei colleghi e dei “ragazzi” ospitati a Venegono (ma anche nelle altre strutture di accoglienza che Umberto ha frequentato, toppando falle e rispondendo generosamente alle emergenze) vengono a galla chiarissimi i tratti di una grande persona, capace di generosità e autenticità. Con i giovani educatori, con gli ospiti, tutti “figli” verso i quali si muoveva con la stessa intensità che ho potuto sperimentare in quel primo nostro incontro.
Ritorna nelle testimonianze quel suo modo di dire, quella risposta pronta a ogni richiesta di attivarsi o di supplire qualche collega assente: “Ma che, scherzi? Che problema c’è?”.
In una frase, tutta la sostanza dell’uomo.
Quanta gente in difficoltà o messa all’angolo dalla vita, smette di chiedere aiuto perché non ha ancora trovato l’Umberto della situazione, che serenamente sa stenderti davanti quel “Ma che, scherzi? Che problema c’è?”.
Sette parole e due punti interrogativi, come salvagenti allungati verso chi si sente affogare e non riesce a venirne a capo.
Grazie di tutto, Umberto.
Oliviero Motta