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Continua la riflessione sull’utilizzo del cinema nei contesti terapeutici. Diego Corti, psicologo e supervisore, lavora nella nostra comunità ad alta assistenza “Alda Merini”.

Nei precedenti articoli ci siamo soffermati su alcuni principi generali alla base dell’utilizzo in chiave terapeutica del mezzo cinematografico, mettendo in evidenza alcuni processi psicologici – proiezione e identificazione, nello specifico – che la visione di un film (soprattutto, di un buon film) innesca nell’osservatore e che, se guidati, si dimostrano strumenti efficaci per lavorare sulla propria psiche. Oggi, vorrei introdurre più direttamente un tema che abbiamo già in più occasioni lambito; quello del rapporto, profondo e ancora da esplorare, tra cinema e psicoanalisi.

Entrambi “figli” del clima culturale e tecnico-scientifico degli ultimi anni del 1800, cinema e psicoanalisi non hanno da subito riconosciuto il loro legame di fratellanza. Sembra, infatti, che Freud (padre della psicoanalisi) considerasse il cinema “un passatempo senza storia”, ed è certo che rifiutò l’invito da parte del regista viennese Georg W. Pabst di collaborare al film “I misteri dell’anima” (1925), primo di una lunga serie di omaggi che la cinematografia renderà alla psicoanalisi negli anni a venire.

Dal dopoguerra in poi – soprattutto grazie all’opera di registi dichiaratamente ispirati al metodo psicoanalitico come Hitchcock, Bergman, Fellini, Lynch e Woody Allen, i due “fratelli” diventeranno, strada facendo, sempre più consapevoli di frequentare le stesse zone di confine tra sogno e realtà, ragione e sentimento, impulso e morale. Le analogie tra film e sogno sono evidenti: secondo Fellini, per esempio, “il film è il sogno di una mente in stato di veglia”. E il sogno, come argomentava Freud stesso nella sua “Interpretazione dei sogni” (1899) con una frase diventata poi celeberrima, è: “la via regia per la conoscenza dell’inconscio, il fondamento più sicuro della psicoanalisi”.

Non a caso, una delle metafore più richiamate per riferirsi al medium cinematografico è quella della “fabbrica dei sogni”: il cinema, con la sua illusione di verità che suscita la meraviglia e lo stupore, ha un potere evocativo, simbolico e allegorico, straordinario. Esso rappresenta, usando le parole del filosofo e sociologo francese Edgar Morin: “l’incarnazione dell’immaginario nella realtà esterna”, e può essere considerato, a tutt’oggi, una delle più vivide e caleidoscopiche espressioni delle fantasmagorie che animano l’inconscio umano, una sorta di “sogno collettivo” che, come in uno specchio (per citare un’altra pellicola particolarmente cara agli analisti), restituisce un’immagine ricca e complessa, talvolta disturbante, dell’umanità.

Ma cosa accumuna sogno e cinema? Qual è la funzione del sogno – e quindi, mutatis mutandis, del cinema – per le principali correnti psicoanalitiche?

Un “concetto ponte” che lega cinema, sogno e psicoanalisi è quello di desiderio. Sintetizzando un po’ brutalmente, potremmo dire che ogni volta che vediamo un film (a patto, lo ripetiamo, che si tratti di un buon film!), questo attiva in noi un desiderio, qualcosa che ci smuove e ci orienta e che ha a che fare con quello che Jung definiva come “processo di individuazione”, ovvero la ricerca di chi siamo e di cosa ci differenzia dal collettivo (dagli altri, dalla società in cui siamo nati). Detto altrimenti, il cinema (come il sogno) ci mette in contatto con il nostro desiderio; ci mette in contatto, cioè, con le parti più nascoste, temute, preziose e sconosciute del nostro inconscio, e ci permette, così, di riconoscerle integrandole alla coscienza e ampliando la consapevolezza di noi stessi, di modo da orientarci al meglio nelle nostre scelte di vita e nell’impresa di tracciare un’immagine quanto più completa e coerente del puzzle contraddittorio di cui è composta la psiche di ciascuno.

Più nello specifico, di che desiderio stiamo parlando? Qui le cose di complicano, perché ogni teoria psicoanalitica ha dato un’interpretazione diversa o ha ampliato il senso del termine desiderio. Possiamo dire, in linea generale, che il cinema, come il sogno, soddisfa e rende in forma narrativa un nostro desiderio nascosto. È per questo motivo che il lavoro clinico attraverso il cinema permette, quando funziona, di fare emergere questa dimensione “velata” del desiderio, dalla quale possiamo poi avviare una discussione di gruppo o individuale; in questo senso, il cinema è, prima di tutto, uno strumento per entrare in contatto con parti profonde di noi stessi, è uno strumento di conoscenza. Ma conoscenza di cosa? Qual è, nello specifico, la natura desiderio che il cinema proietta sullo schermo? Ecco, qui le risposte si diversificano nei vari autori. Per il momento, vi propongo di introdurre (brevemente) solo la visione freudiana, ci riserviamo di toccare altri autori significativi nei prossimi articoli. Il desiderio di cui parla Freud è quello “infantile”: esso affonda le sue radici nei primi impulsi sessuali che il bambino non può soddisfare nella realtà ed è costretto a rimuovere nell’inconscio, dove tuttavia resterà sempre attivo, come una molla caricata pronta a scattare durante il sogno. A questa interpretazione “classica” del desiderio onirico vanno aggiunte quelle derivanti dagli orientamenti psicoanalitici più “moderni”, che vedono nel sogno non solo un’espressione velata dei desideri inconsci infantili legati alla sessualità, ma più in generale un serbatoio di tutte le paure e le tendenze inespresse che animano la nostra psiche. Il sogno, come il cinema, sa rendere attraverso una narrazione complessa i personaggi interni del sognatore/spettatore; questi emergono e diventano “leggibili” dalla coscienza attraverso i mezzi di rappresentazione, le immagini, i dialoghi e le ambientazioni oniriche e cinematografiche.
Immaginiamo di vedere un film come fossimo immersi in un sogno a occhi aperti: possiamo identificarci con i personaggi, possiamo sperimentarne su di noi le sensazioni e possiamo, soprattutto, utilizzarlo per vivere in modo “protetto” tutti quei contenuti che la psiche difensivamente rimuove perché troppo impattanti, attivanti o sconvenienti. Da questo punto di vista i film ci attraggono perché ci permettono di entrare in contatto (mettere in scena) con tutti quei contenuti (mentali, emotivi, pulsionali) che ci riguardano ma da cui tendiamo a sfuggire, mantenendo, in questo processo di presa di consapevolezza, quella “distanza di sicurezza” rappresentata dallo schermo e dalla finzione filmica. Del resto, in qualsiasi momento possiamo rassicurarci dicendoci che, in fondo, “era solo film…”, ristabilendo quella distanza necessaria per non farsi eccessivamente contagiare dai contenuti che, però, nel mentre, il film ci ha permesso di esplorare. Questo effetto psicologico del medium cinematografico, analogamente al sogno, permette così di esplorare, di rendere consapevoli, ed esempio, tutti questi vissuti di rabbia, insoddisfazione, angoscia, contrarietà che, specie nei servizi di diagnosi e cura, le persone (operatori e pazienti) si trovano spesso a sperimentare o ad agire nella realtà; a volte, purtroppo, con esiti distruttivi.

Vedremo nelle prossime puntate altre declinazioni del termine desiderio in psicoanalisi e nel cinema, ed esploreremo – magari addentrandoci in alcune delle nostre pellicole più care – i fecondi e complessi rapporti di parentela tra queste due recenti discipline la cui sceneggiatura ha (si spera) ancora molto da raccontare.

Diego Corti

Gli articoli precedenti:

  1. Il cineforum come strumento nei contesti terapeutici: il caso del “Signore degli anelli”
  2. Psicologia del cineforum: proiezione ed identificazione
  3. Psicologia del cineforum. Simone e Alessio di fronte a “Ragazze interrotte”