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Nel precedente articolo abbiamo trattato il tema della proiezione e dell’identificazione intese sia come difese psichiche contro l’angoscia, sia come “strumenti” conoscitivi e di cambiamento psicologico, e abbiamo messo in relazione questi processi cognitivi con il setting proprio del cineforum, fornendo anche alcune indicazioni teoriche su come canalizzare tali processi verso obiettivi terapeutici.
Riprendendo, in estrema sintesi, quanto già sviluppato in precedenza, intendiamo col termine proiezione un meccanismo psicologico tramite il quale il soggetto scinde da sé delle parti (emozioni, sentimenti, pensieri) indesiderate della propria psiche che gli suscitano angoscia, e le proietta su un bersaglio esterno, tipicamente un altro soggetto o un gruppo di soggetti. Così facendo, chi agisce questa difesa si “libera” dell’angoscia, tuttavia, al tempo stesso, subisce una sorta di “menomazione”: non essendo in grado di reggere l’impatto emotivo con alcuni dei suoi stessi contenuti, la psiche li dissocia e li proietta fuori da sé, ma in questo modo si rende inconsapevole di sé stessa e finisce col disconoscere o disprezzare quelle stesse parti proiettate (e i soggetti su cui le proietta, come tristemente evidente nelle dinamiche psicologiche sottostanti alla xenofobia o in molti fenomeni di stigmatizzazione). In altri termini, i fenomeni proiettivi, se non adeguatamente elaborati, possono impoverire il soggetto rendendolo più inconsapevole e maggiormente incline ad agire le proprie dinamiche disfunzionali. Il compito della terapia (psicologica, psicoterapeutica o educazionale) sarà, quindi, di agevolare la re-introiezione dei contenuti proiettati e la loro consapevole elaborazione. Vedremo tra poco come lo strumento del cineforum possa rivelarsi prezioso in tal senso.
L’identificazione può essere invece definita come l’operazione “opposta” alla proiezione: per suo tramite, un soggetto sperimenta come facenti capo alla propria psiche dei contenuti esterni. Se la proiezione procede nella direzione che dal soggetto conduce all’esterno, l’identificazione percorre il cammino inverso, dall’esterno all’soggetto. Il problema, nell’identificazione, ha a che fare con le modalità e le effettive possibilità del soggetto di assimilare, ovvero di “fare proprio”, il contenuto con cui si identifica. In altri termini, la domanda che sottace all’identificazione recita pressappoco così: “Come posso realizzare nella mia vita quanto di me vedo nell’Altro?”.  Senza che questa domanda trovi risposta, l’identificazione rischia di rimanere un momento di piacevole evasione, magari catartico sul piano emozionale, ma che non trova alcuno sbocco verso un concreto cambiamento di sé. Anche qui, l’attività terapeutica del cineforum ci viene in soccorso.

Vediamo ora, attraverso un esempio concreto tratto dall’attività di cineforum in comunità, come i fenomeni proiettivi e identificativi possano favorire dei processi terapeutici di conoscenza di sé.

“Ragazze interrotte” è un film drammatico del 1999, diretto da James Mangold. Siamo nel 1967; Susanna Kaysen è una ragazza diciannovenne all’apparenza normale, ma con un cattivo rapporto con i genitori, piena di insicurezze e debolezze, e che a volte si rifugia nel suo mondo interiore fantastico. Ama scrivere, e annota i fatti della sua vita in una specie di diario. Una sera, preda della depressione, ingoia un flacone di aspirine con della vodka; viene soccorsa, e i genitori decidono di portarla in un ospedale psichiatrico, il Claymoore Hospital; lì, Susanna firma il ricovero. Quando lo psichiatra diagnostica in Susanna un disturbo borderline di personalità e lo riferisce ai genitori, aggiungendo che spesso è un disturbo ereditario, la coppia reagisce con deciso rifiuto, non tollerando di essere associati ad una malattia mentale. Nell’ospedale Susanna incontra le sue compagne di reparto: la leader Lisa, sociopatica carismatica e dominante, la ricca e viziata Daisy, dai tratti istrionici, Polly, sconvolta per le ustioni accidentali subite nell’infanzia, la bugiarda patologica Georgina e Janet, una ragazza anoressica. Tra Lisa e Susanna, inizialmente ostili, nasce una sincera amicizia: durante una loro ispezione notturna clandestina nell’ufficio dell’amministrazione, Susanna ha modo di leggere la sua cartella clinica, in cui Lisa viene definita sessualmente promiscua e borderline. Un giorno Polly ha una crisi dopo aver osservato Susanna appartarsi in compagnia del suo ragazzo Toby: prova un moto di invidia e si convince che le cicatrici sul suo viso comprometteranno irrimediabilmente la sua vita sentimentale. Per consolarla, Lisa e Susanna sedano l’infermiera di guardia e cominciano a suonare e cantare accanto alla porta della ragazza. Vengono poi scoperte, riprese e convocate nello studio della dottoressa Wick, la quale trasferisce Lisa in un altro reparto. In generale, la struttura ospedaliera ha un’impostazione rigida, manicomiale e restrittiva, e il personale non sembra minimamente interessato a fornire alle pazienti un’esperienza autenticamente curativa. L’unica ad ascoltare realmente le ragazze è Valerie, un’infermiera che fa di tutto per salvare Susanna da sé stessa e dall’amicizia con Lisa, giudicata dannosa per la psiche della giovane scrittrice. Una notte Lisa, che non sopporta di dover subire l’elettroshock, raggiunge la stanza di Susanna e le due fuggono insieme. Raggiungono l’abitazione di Daisy, che era stata dimessa in precedenza. La ragazza accetta di ospitarle, ma Lisa inizia a provocarla con insinuazioni sul rapporto della ragazza con il padre (che si scopre essere incestuoso). Al mattino Daisy, messa brutalmente di fronte alla miseria della sua vita, si impicca. Lisa non resta scossa per nulla dall’evento: ruba i soldi a Daisy e continua la fuga mentre Susanna, sconvolta, torna in ospedale, ora pronta ad affrontare un “vero” percorso di recupero. Susanna, rinfrancata nella sua volontà di “guarire”, accetta di continuare la sua terapia psicologica e di seguire i consigli di Valerie, dimostrando notevoli progressi e convincendo i medici a dimetterla. Quando Lisa viene riportata nella clinica trova il diario di Susanna e, invidiosa dell’amica perché considerata sana e in via di dimissioni, lo legge ad alta voce davanti a Georgina e Polly, svelando alcune considerazioni che la ragazza aveva fatto sulle due compagne. Susanna allora accusa Lisa di essere “morta dentro” e le dice di aver capito che l’unico modo che la ragazza ha per sentirsi viva è quello di rimanere nella clinica, per tormentare le altre pazienti, e aggiunge che a nessuno importa più nulla di lei. Lisa viene scossa da queste parole e ha una grave crisi nervosa. Il giorno dopo Susanna, prima di essere dimessa, ha modo di parlare con Lisa, nel frattempo sedata e immobilizzata, e chiarire. Lisa le confessa che sentirà la sua mancanza. L’amicizia fra le due ragazze è salva.

Il film è considerato come una classica rappresentazione, forse un po’esasperata dalle esigenze registiche, del funzionamento borderline di personalità. È un tipo di pellicola che, se proposta in contesti comunitari, tende a suscitare una grande mole di rispecchiamenti, riflessioni e stati emotivi, e che a dispetto della scarsa spettacolarità e della trama tutto sommato scarna, tende a mantenere gli spettatori incollati allo schermo. I personaggi femminili, tanto estremizzati nelle loro psicopatologie da risultare quasi fumettistici, riassumono sufficientemente bene tutta una serie di tratti che nella realtà sono, spesse volte, compresenti nelle persone che manifestano tratti border. In un certo senso, si potrebbe considerare l’insieme dei personaggi femminili presentati come rappresentanti le diverse “anime” che si muovono nello psichismo del border, ovvero le dinamiche che ne sottendono i comportamenti, spesso caotici e contraddittori. Per questo motivo, è naturale che il film susciti numerosi processi proiettivi e identificativi nello spettatore, che tenderà così a ri-conoscersi o a dis-conoscersi, di volta in volta, nei vari personaggi rappresentati.

Simone, ad esempio, è un ragazzo di circa 25 anni con una diagnosi di “struttura schizoide di personalità”, una modalità di funzionamento psichico che, pur ricadendo nello “spettro border”, ne manifesta non tanto gli aspetti impulsivi, quanto piuttosto il ritiro sociale e la tendenza a “interpretare” le intenzioni altrui, ovvero a leggere in chiave persecutoria o minacciosa il comportamento degli altri nei suoi confronti, specie se sconosciuti. Nonostante il suo percorso in comunità stia volgendo alla conclusione e al di là dei progressi fatti, Simone tradisce ancora una scarsa consapevolezza delle proprie dinamiche disfunzionali, e manifesta una spiccata tendenza ad attribuire unicamente all’esterno la responsabilità e le cause che hanno portato, attraverso momenti delicati e dolorosi, al suo inserimento in struttura e al temporaneo allontanamento dai familiari. Quando gli chiedo cosa ne pensa della figura di Lisa, risponde: “Lisa è una ragazza intelligente, ma usa male la sua intelligenza. Non vuole accettare di avere dei problemi, dei disturbi… e li scarica sulle altre. Questo non le ha permesso di uscire dalla comunità e di intraprendere una vita normale. Scappa dalla comunità, non segue le attività… si mette nei casini, insomma!”. Si intravede, in questo passaggio, l’attivazione di una dinamica proiettiva: Simone sembra riconoscere in Lisa ciò che disconosce in sé stesso, ovvero l’incapacità di ammettere l’esistenza, dentro di sé, di dinamiche distruttive o aggressive. In chiave terapeutica, si potrebbe riprendere delicatamente il tema con Simone, per esempio mettendolo a confronto con l’evidenza che tutti noi, come esseri umani, siamo investiti da impulsi distruttivi, e che se anche ci portiamo una “piccola Lisa” appresso questo non fa di noi dei “mostri” destinati all’esclusione sociale, ma che è necessario imparare a riconoscere e gestire quegli impulsi per quanto possibile, per il bene nostro e della collettività nel suo complesso. L’aspetto importante, credo, quando si lavora sui processi proiettivi, è la gradualità e la premura che si usano nell’avvicinare il soggetto ai contenuti proiettati; se si interviene in modo troppo diretto, o peggio ancora “accusatorio”, si rischia soltanto di esasperare maggiormente le difese. Un altro elemento essenziale quando si lavora sulle difese psichiche come la proiezione è che ogni tentativo di elaborazione proposto si collochi all’interno di un campo relazionale caratterizzato da umiltà, reciproca fiducia e rispetto; se calate dall’alto della propria professione, come fossero oggettivate, queste “interpretazioni” portano solo a nuove chiusure e suscitano sempre una certa resistenza. È necessario, infine, tenere sempre presente la funzione difensiva delle dinamiche proiettive, che sono prima di tutto una barriera contro l’angoscia. Quando notiamo (come, in effetti, mi capita spesso di notare nel caso di Simone) che i nostri interventi stanno suscitando una certa ansietà o inquietudine, è deontologicamente buona prassi interrompere lo sforzo e rispettare il diritto dal paziente a tutelarsi dalla sofferenza, per quanto controproducente ci possa apparire tale “scelta”.

I processi identificativi sembrano richiedere minori cautele rispetto alla proiezione, essendo meno basati su esigenze difensive della psiche. Tuttavia, essi presentano alcuni rischi insidiosi che è bene riconoscere. Prendiamo il caso di Alessio, 24 anni, un background da “bullo” di periferia che lo ha portato ad abusare di sostanze, con effetti dirompenti sul piano del suo percorso scolastico e del controllo degli impulsi, fino ad essere denunciato dai suoi stessi familiari per maltrattamenti e allontanato da casa. In comunità Alessio sta ristabilendo, prima di tutto, una sua integrità psicofisica a riparo da droghe e modelli maschili disfunzionali, cercando, al contempo, nuove strategie per la gestione della rabbia e delle frustrazioni con cui quotidianamente si misura. Non è un compito facile, e Alessio si ritrova spesso a oscillare tra vecchi schemi e nuovi, sempre in cerca di distrazioni che gli permettano di evadere, anche per poco, dai suoi stati d’animo più sgradevoli. Quando gli chiedo cosa ne pensa di Susanna, del suo percorso e se qualcosa del film lo ha colpito in particolare, risponde: “Sinceramente tutto il film mi ha colpito… quando all’inizio le ragazze andavano nelle stanze e scassinavano la porta, facevano cazzate… avevano trovato un modo per divertirsi, giocare a bowling nelle corsie… avevano trovato un loro modo di svagarsi, essere libere e non pensare ai problemi. Però c’è anche un altro modo che ho visto per non andare fuori dagli schemi, per non sbagliare… quello di Susanna. Lei si è aperta scrivendo quel diario, ha scambiato i suoi segreti con le compagne, si è raccontata con l’infermiera, si è impegnata… e ha accettato l’aiuto degli psichiatri, forse perché ha pensato che loro avessero capito qualcosa di lei, di come si sentiva. Credo che scrivere e parlare per lei sia stato molto importante, e ho pensato che potrebbe esserlo anche per me. Ma non so se sono in grado di farlo in quel modo lì”. Si nota, in questo passaggio, la compresenza di processi identificativi di tipo sia negativo, sia positivo. Nella prima parte, quando Alessio fa riferimento alle “cazzate” che le ragazze agiscono per evadere dalla routine e dalla alienazione del reparto, siamo in presenza di un’identificazione per così dire negativa, perché ancorata, nel caso specifico, a un modello fondamentalmente antisociale e sprezzante delle regole condivise. Il lavoro terapeutico, qui, sarà improntato attorno a una paziente e ragionata elaborazione delle conseguenze derivanti dalla adesione a quel modello, sperando di condurre il paziente verso una sua successiva (e auspicabile) messa in discussione. Ma questo non basta. Non è possibile, infatti, abbandonare un modello senza che non ve ne sia disponibile uno nuovo e, quantomeno, altrettanto attrattivo. E qui per Alessio entra in gioco una nuova, disponibile identificazione, quella rappresentata dalla posizione di Susanna. Susanna non va “fuori dagli schemi”, non “sbaglia”, e istituisce un rapporto di collaborazione non antagonista dell’istituzione che la accoglie, per quanto essa stessa non esente da limiti. Nel fare questo, fa leva sulle sue competenze pregresse (la scrittura, il diario) e attinge da ciò che il contesto le mette a disposizione (aprirsi al dialogo, raccontarsi, parlare con gli psichiatri). Si intuisce dalle parole di Alessio come questa nuova possibilità susciti in lui un certo fascino, ma anche una certa disillusione, perché Alessio stesso si percepisce come troppo poco strumentato per intraprendere concretamente una scelta di quel tipo (“Non so se sono in grado di farlo in quel modo lì”). È necessario, allora, lavorare con il paziente per calare questa nuova possibilità nella sua realtà psichica, calibrandola sulle sue concrete capacità espressive, magari utilizzando un medium che lui stesso senta come più affine e alla sua portata. Nel caso di Alessio, abbiamo rintracciato questo medium nella sua passione per la musica Hip-Hop e per la scrittura dei relativi testi. Farà forse piacere al lettore sapere che, da un po’ di tempo a questa parte, i testi di Alessio si sono via via svuotati della retorica da strada, della violenza e dei soldi facili, per popolarsi delle riflessioni, delle confessioni, delle paure e dei desideri di un ragazzo poco più che ventenne che sta, faticosamente ma tenacemente, cercando un sua via, per quanto tortuosa essa appaia. 

Diego Corti

Info: cpamerini@coopintrecci.it

Gli articoli precedenti:

Psicologia del cineforum: proiezione ed identificazione

Il cineforum come strumento nei contesti terapeutici: il caso del “Signore degli anelli”